di Giulio Meotti
Ha appena festeggiato il suo 65esimo anniversario. E così Israele, per la prima volta, con sei milioni di ebrei, è diventato il maggiore centro ebraico mondiale, superando gli Stati Uniti. Il Paese ha dunque molte ragioni per festeggiare. Eppure, una tenaglia invisibile accerchia lo Stato ebraico: Gaza è un fortino del terrore, con le autorità egiziane dei Fratelli Musulmani non c’è alcun canale di dialogo, la Siria sta esplodendo contagiando il Libano di Hezbollah, mentre la Giordania sembra vivere in un limbo, unico Paese della regione non toccato dalla “primavera araba”.
Tutti i confini di Israele (più di mille chilometri), intanto, sono stati protetti da muri, recinzioni e barriere. C’è chi lo paragona al Vallo di Adriano (il monumentale confine Romano in Britannia), alla linea Maginot (le fortificazioni francesi costruite per proteggere i confini tra la Prima e Seconda Guerra Mondiale) o al ghetto medioevale (il quartiere ebraico circondato da mura e cancelli). Eppure il confine più poroso e difficile resta quello interno, nel cuore della Cisgiordania, la Giudea e Samaria.
Alcuni giorni fa il presidente americano Barack Obama ha compiuto la sua prima, storica visita nella regione, ma a differenza della prima Amministrazione Obama, questa volta la Casa Bianca non spingerà per una soluzione in grande stile del conflitto con i palestinesi. Tira un’aria di scetticismo e distanza a Washington sulla reale possibilità di siglare un accordo fra Ramallah e Gerusalemme. Anche Obama sembra aver compreso che il massimo che può concedere è meno del minimo di quello che i palestinesi sono disposti ad accettare. Il presidente, nella sua visita, a Ramallah è arrivato in elicottero, troppo pericolosa la strada via auto, quasi a voler simboleggiare la realtà eterea della cosiddetta “Autonomia Palestinese”.
L’esercito e l’intelligence israeliane stanno da settimane fronteggiando la “quieta Intifada” o “mini Intifada”, come i commentatori l’hanno definita, che rischia di trasformarsi nella terza, dopo quelle del 1987 e del 2000. L’attuale clima ricorda i giorni precedenti lo scoppio della prima sollevazione palestinese: una protesta popolare, massiccia e non violenta. Almeno per adesso. Il casus belli è stato la morte di un palestinese, Arafat Jaradat, in una cella di custodia dello Shin Bet, i servizi di sicurezza israeliani, nella prigione di Megiddo (Galilea). La vicenda ricorda quella che scatenò la rivolta del 1987, quando un camionista israeliano investì accidentalmente quattro lavoratori palestinesi (da Gaza si diffuse la teoria dell’assassinio premeditato). Inoltre, come per il processo di Oslo, Israele sembra doversi affidare a una leadership palestinese del tutto invisa alla popolazione araba.
L’intelligence israeliana ritiene che l’attuale caos nei Territori sia orchestrato dall’Autorità Palestinese, che chiama i detenuti allo sciopero della fame e in preda al caos politico dopo le dimissioni del premier Salam Fayyad, inviso alla piazza, ad Hamas e al presidente Abu Mazen ma molto amato da Obama e dalla diplomazia occidentale.
FAYYAD “L’AMERICANO”
Con una rampante crisi della disoccupazione e il mancato pagamento dei salari dei poliziotti palestinesi, per sedare il malcontento, Israele ha autorizzato il trasferimento di cento milioni di dollari nelle casse dell’Anp. Poi c’è il successo di Hamas a Gaza durante l’ultimo conflitto con Israele. Gli islamisti hanno presentato la “hudna”, tregua, come un successo della lotta armata, mentre Fatah sta cercando di usare mezzi non violenti per incassare la solidarietà della strada palestinese senza perdere il consenso internazionale. Abu Mazen teme di perdere il controllo anche in Cisgiordania, pressato, dalla prigione, dai richiami all’Intifada di Marwan Barghouti, il capopopolo condannato a cinque ergastoli per terrorismo e ritenuto in tutti sondaggi il più popolare leader palestinese, persino di Hamas.
Ritratti elogiativi di Fayyad erano apparsi sul Washington Post, sul Wall Street Journal e sul New York Times. Ma per Hamas, Fayyad è semplicemente un “lacché” e un “collaborazionista”, soprattutto per aver ceduto sul diritto al ritorno dei profughi. Anche le Brigate dei Martiri di Al Aqsa, braccio armato di Fatah, lo hanno condannato a morte in quanto “traditore”. “L’americano a Ramallah”, ha scritto di lui Time magazine. Con il dottorato in Economia all’Università del Texas (forti i legami con la famiglia Bush), amicizie nelle cancellerie occidentali, una lunga esperienza alla Banca mondiale, il tecnocrate Fayyad è inviso anche ad al Fatah, il partito di Abu Mazen che non gli perdona le purghe contro i funzionari corrotti. Gli islamisti hanno in odio il “fayyadismo”, come lo ha definito la rivista Foreign Policy, l’idea che per fondare lo Stato palestinese si debba rinunciare al conflitto con Israele e partire dall’economia e dal welfare. Fayyad ha basato il suo buon governo sul celebre motto israeliano di “creare fatti sul campo”. Nulla di più lontano dal martirologio jihadista di Osama bin Laden fatto dal premier di Hamas, Ismail Haniyeh. «Il giorno in cui i palestinesi butteranno fuori Fayyad è vicino, non accetteremo di essere governati da uomini dell’America», aveva detto un anno fa uno dei leader di Hamas, Mushir Al Masri. Hamas vuole anche la testa del capo della sicurezza di Fayyad, il generale Adnan Damiri, che ha bandito gli imam più fondamentalisti dalle moschee e represso le cellule di Hamas. I capi islamisti lo accusano esplicitamente di averli “venduti” a Israele.
OCCHI SU NABLUS
Israele non si trova nella situazione del 1987, quando governava letteralmente la vita quotidiana dei palestinesi di Gaza e Cisgiordania e il suo esercito non sapeva far fronte a uno scenario di guerra asimmetrica. Oggi il compito dell’esercito è proteggere gli insediamenti, bersagli prediletti delle campagne “popolari”, e i checkpoint, vitali per la sicurezza delle città ebraiche sulla costa. A Nablus, il maggiore epicentro del terrore, sono riapparse le brigate col passamontagna e i mitra in pugno. Non si vedevano da cinque anni.
Dall’interno dell’esercito israeliano gli strateghi sono dell’idea che il 2013 sarà un anno decisivo: o l’Autorità palestinese, o il processo negoziale, crolleranno.