di Rossella De Pas
Domenica 23 gennaio presso la Casa della Poesia di Milano si è tenuto l’evento “Il Giorno della Memoria dedicato ai Giusti”, organizzato dall’associazione AMATA (Amici italiani del Museo di Tel Aviv) con il patrocinio del Comune di Milano e della Casa della Poesia.
L’input della serata è stato celebrare la Shoah attraverso le azioni dei giusti: quegli uomini che, spesso a rischio della propria vita, hanno deciso di seguire il bene in opposizione al male imperante intorno a loro.
Il primo intervento, dopo una breve presentazione dell’Istituzione AMATA da parte del presidente Arturo Schwarz, è stato quello di Gabriele Nissim, scrittore e Presidente del Comitato Foresta dei Giusti di Milano.
L’autore si pone due domande fondamentali: perché i giusti siano invisibili e a cosa servano i giusti. Per quanto riguarda la prima questione, Nissim sottolinea che gli atti umani spesso non vengono ricordati perché non sembrano cambiare la storia: se è vero che i giusti della Shoah non sono riusciti a fermare il genocidio, essi hanno avuto però un ruolo fondamentale in quanto, nelle situazioni estreme, hanno salvato la speranza dell’umanità. Queste persone, infatti, hanno compiuto atti di salvataggio non perché spinti da un senso di abnegazione o perché fossero santi o eroi, ma perché ritenevano che, salvando delle vite, avrebbero salvato anche la loro idea di uomo: la spinta che ha permesso i loro gesti deriva dal fatto che queste persone non potevano essere complici del male per poter riuscire a vivere serenamente con se stessi. Nei confronti di queste persone che si sono distinte dalla massa c’è un dovere di gratitudine che si è concretizzato nel Giardino dei Giusti di Yad Vashem con i suoi 23.000 alberi.
L’importanza dei giusti non è tanto ancorata al passato quanto proiettata al futuro, prosegue Nissim: le loro azioni servono da monito ed insegnamento per le generazioni a loro successive. Nissim fa l’esempio concreto del console italiano Antonio Costa che in Rwanda si è comportato come un moderno Perlasca salvando la vita, a rischio della propria, ad un centinaio di giovani Tutsi. I giusti diventano quindi un esempio per le generazioni future, per noi stessi, per darci la speranza di rendere il mondo un po’ migliore di quello in cui viviamo.
Molto intenso ed applauditissimo è stato lo spettacolo “L’ultima notte di Bonhoeffer” dove l’attore ed autore Pino Petruzzelli ha rappresentato il tormento di Dietrich Bonhoeffer, il teologo luterano tedesco protagonista della resistenza al Nazismo ed autore di una cospirazione fallita ai danni di Hitler.
Particolarmente interessante l’intervista di Gad Lerner a Gottfried Wagner, pronipote del musicista Richard Wagner, che ha analizzato i rapporti tra la sua famiglia ed il Nazismo ed, in particolare, il suo stretto legame alla figura di Hitler.
Partendo dall’asserzione che il bisnonno fosse antifemminista, antisemita e nazionalista e che Hitler lo avesse “eletto” a modello culturale e politico della nuova società ariana, Gottfried Wagner enfatizza il ruolo diretto della sua famiglia nell’ascesa del potere nazista: un esempio su tutti, il fatto che la nonna abbia fornito ad Hitler la macchina da scrivere ed i fogli che egli usò in carcere per scrivere il Mein Kampf.
Gottfried ha sottolineato il suo netto distacco dalla propria famiglia e, incalzato da Lerner, il suo difficile rapporto con il padre, pressoché inesistente fino alla sua scomparsa nel 2010.
Proprio lo studio e l’approfondimento del comportamento della propria famiglia lo hanno portato a fondare con il Dottor Abraham Peck il “The Post – Holocaust Dialogue Group” nel 1992 e a pubblicare in Germania nel 1997 la sua autobiografia “ The Twilights of the Wagners “, tradotta poi in sei lingue.
La serata è stata accompagnata dalla musica dei Nefesh Trio e del coro Col Hakolot che hanno offerto una panoramica della produzione musicale ebraica, da quella di origine sefardita a quella klezmer, che l’Olocausto non è riuscito a cancellare.
Particolarmente emozionante è stata l’esecuzione dell’ultima canzone, Eli Eli, composta da Hannah Senesh, una ragazza di origine ungherese che lasciò il kibbutz Sdot-Yam dove viveva per andare come volontaria prima in Yugoslavia e poi in Ungheria, dove venne scoperta ed uccisa dai Tedeschi nel 1944.