di Daniel Fishman
Sabato mattina, per strada, a pochi passi dall’entrata in Comunità, cerco di decifrare qual è il canto che una bellissima voce diffonde per via Gombruti. Mi è nota la capacità canora di Rav Alberto Sermoneta, ma questa volta non riconosco temi o melodie a me noti.
“È dura mio caro -mi spiegherà più tardi, scherzando, il Rabbino Capo-. Quello che canta è un tenore. Abita proprio qui di fronte alla sinagoga. E ancora: ci sono le campane di due chiese ubicate qui vicino; come se non bastasse, quando a Rosh ha Shanà io suono lo shofar c’è sempre un cane che spesso comincia incessantemente ad abbaiare!”.
Il reportage del Bollettino sull’Italia ebraica fa tappa questa volta a Bologna, dove la Comunità ha una storica presenza e una radicata sedimentazione nel tessuto cittadino.
Una presenza viva ma discreta. Discreta e poco esibita, come lo è la struttura stessa del centro cittadino tutto disegnato dai suoi portici. Portici che suggeriscono la loro doppia funzione: di “nascondere” e, nel contempo, di permettere animazione e traffici in città, anche quando piove. Dotta, erudita, grassa, rossa, sono solo alcuni degli aggettivi tradizionalmente utilizzati per descrivere il capoluogo emiliano. Come da altre parti però tutto è in rapida evoluzione e gli stereotipi non bastano più a spiegare la realtà. Se a Milano c’è il bike sharing (a pagamento), a Bologna resiste l’idea di bicicletta di pubblico utilizzo, assolutamente gratuita. Mi racconta però il mio amico bolognese Francesco Tasso, ciclista dilettante, “che sì, la bici sarà anche gratis, ma c’è sempre qualche magagna, il sellino non è regolabile e il passo è molto duro. Mi sembra ogni volta di dover fare la Parigi-Roubaix, una faticaccia”. I mercati rionali vendono solo cineserie ed anche il pubblico di acquirenti non è proprio quello dei bolognesi, che però soprattutto per il cibo -sanno invece perfettamente dove bisogna andare- (per mangiare nella mensa della Comunità bisogna prenotare un paio di giorni prima). E tutto questo è decisamente in contrasto col fatto che in Regione ci siano sicuramente molte realtà alimentari che producono delikatessen e cibarie kasher per l’esportazione.
Il Presidente e il Rabbino ci parlano degli eccellenti rapporti con il Sindaco Virginio Merola, e delle tante iniziative fatte insieme alle pubbliche istituzioni. Non è da molto che vi è stato anche un accordo con la società Hera, municipalizzata, perché fosse questa a gestire il cimitero ed i relativi servizi per la Comunità. Questo servizio tuttavia, non è ritenuto soddisfacente, anzi un tasto decisamente dolente: gli iscritti lamentano costi troppo alti a fronte di un insoddisfacente ritorno.
Durante l’inverno le funzioni religiose avvengono nel piccolo Tempio, mentre quello grande è usato soprattutto per le feste principali e per gli incontri con la cittadinanza. Durante la Birkat Kohanim attira la mia attenzione un momento collettivo emozionante: tutte le donne si dispongono in cerchio ed ognuna di loro mette una mano sulla testa della vicina, in segno di comunanza.
E’ un gesto che bene simboleggia la solidità delle relazioni, l’intreccio dei legami, il senso di appartenenza, una dinamica che si produce con maggiore facilità proprio nelle piccole Comunità. Quella bolognese è composta da circa 200 persone e tutti ovviamente si conoscono tant’è che nel corso di una festa privata a cui sono invitato, ritrovo tanti volti che avevo visto in mattinata in sinagoga.
A Bologna il governo comunitario è gestito dal Consiglio più giovane dell’Italia ebraica. “E’ un segnale di responsabilità -ci dice David Menasci, uno dei due vicepresidenti-. Ma è anche la testimonianza di come ci sia la possibilità per chiunque voglia impegnarsi e fare qualcosa, di dare il proprio contributo. Vengo da Roma, ma non ho avuto nessuna difficoltà per trovare la maniera di essere utile a questa Comunità. Anche se è piccola, sentiamo moltissimo il problema dell’assimilazione: ma il vero problema è che purtroppo ancora molta gente si aspetta che sia la Comunità “a fare” delle cose senza capire che la Comunità siamo noi: poche persone di buone volontà disposte a spendersi per mantenere viva l’identità collettiva”.
Il Presidente è Guido Ottolenghi, che rispetto alla media della politica italiana ed ebraica può essere considerato un “giovane”. “Mi piacerebbe una maggior vivacità una Comunità che sia al centro dei pensieri degli ebrei bolognesi e degli israeliani che vivono qui. Custode delle sue tradizioni ma aperta a chi viene da noi. Vorrei poter dare stimoli religiosi e culturali ad ognuno secondo il suo modo di sentirsi vicino all’ebraismo; e vorrei che ognuno apprezzasse e contribuisse allo sforzo di chi già si impegna per la Comunità. Questo è il lavoro che cerchiamo di fare, unitamente al Rabbino, al Consiglio e a chi lavora in Comunità”. Un auspicio di unità e di concordia che ritrovo anche nelle parole di una figura storica della Bologna ebraica. Dante De Paz mi riceve nel suo negozio della centralissima Via Bassi: dal 1932 vende ai bolognesi il meglio dell’abbigliamento di produzione britannica. Occhialini tondi e folta chioma, mi cita l’esperimento di una mensa kasher che ebbe modo di raggiungere tanti studenti israeliani ei numerosi ebrei di passaggio in questa città di grandi tradizioni universitarie. Questo esperimento ha avuto varie vicissitudini, ma rimane il cruccio di come questi tentativi di interscambio con un numero importante di correligionari presenti a Bologna (più numerosi degli stessi iscritti) sia fondamentalmente mono-direzionale. “Abbiamo provato di tutto -ci dice Guido Ottolenghi-: gli israeliani che vivono a Bologna, spesso studenti universitari, usufruiscono dei servizi che gli proponiamo, ma poi non sembra vogliano mantenere un rapporto con noi”. Una nota invece positiva è la presenza di circa 25 bambini in età pre-bar/bat-mitzva. Per loro ci sono attività di Talmud Torà e il Gan (asilo), una volta alla settimana per due ore, negli ampi e bellissimi locali appena ristrutturati al piano terra della Comunità.
Due domeniche al mese vi è poi attività tutta la mattina seguita da un pranzo per tutti i bambini con una morà proveniente da Roma o da Milano, dei Sedarim didattici e delle recite a Purim organizzate ogni anno dalle mamme. “In questa maniera -spiega Deborah Romano Menasci-, i bambini si sono abituati a festeggiare insieme i chaggim, sanno che per i moadim non si va a scuola e che ci si ritrova in sinagoga per fare le feste in compagnia. Abbiamo anche un piccolo Coro dei bimbi che chiude le teffilot accanto al Rav”. Daniele De Paz ha dato un buon contributo a questa crescita demografica, con ben quattro figli nati in cinque anni. La Comunità ha affidato a lui il compito degli importanti lavori di restauro e di recupero degli edifici comunitari. Il recupero ha portato al clamoroso ritrovamento, durante gli scavi sotto alla Comunità, di un Domus romana. Ho sentito varie versioni di questa storia, ma mi piace raccontare quella che vede il rabbino interrompere “miracolosamente” i lavori di una ruspa, perché stava iniziando lo shabbat, poco prima che tutto fosse sicuramente demolito. E’ sarà proprio da questo stop che scaturirà una straordinaria scoperta: pozzi, mosaici e altri pezzi di grande pregio. Un’operazione che, unitamente a quella del ripristino del Cimitero della Certosa, arricchisce il patrimonio comunitario aumentando gli spunti di visita e la curiosità per una vita ebraica dai toni meno convulsi.