di Roberto Zadik
Fra i Paesi maggiormente colpiti dalla recente ondata di antisemitismo europeo, oltre alla Francia e all’Inghilterra, c’è anche il Belgio. La patria di grandi poeti come Paul Verlaine e di cantautori indimenticabili come Jacques Brel e di scrittori come George Simenon sta vivendo anni molto cupi infestata da slogan antisemiti e atti di violenza fisica e verbale a danno della popolazione ebraica locale. Ad approfondire questa difficile realtà è la prestigiosa testata belga “Le soir” con un interessante e preoccupante dossier scritto da Beatrice Delvaux, autorevole giornalista ed editorialista del quotidiano.
“Morte agli ebrei” è solo uno dei tanti graffiti che si trovano sui muri dei bagni delle nostre università”. Così comincia il testo della Delvaux che esordisce sottolineando che “La paura è la nostra intollerabile realtà”. “Il fatto che questi graffiti antisemiti si trovino negli atenei”, segnala l’editorialista “è particolarmente indicativo e vergognoso visto che essi dovrebbero essere luoghi di diffusione della cultura e della conoscenza e invece fra le giovani generazioni questi episodi si moltiplicano e si ripetono in maniera crescente. Come se gli unici modi di comunicare fossero queste scritte minacciose e anonime in un posto che invece dovrebbe, per definizione, essere aperto al confronto e al dialogo fra studenti che vivono quotidianamente tutti assieme”. La Delvaux evidenzia il fatto che questi episodi siano sempre di più e che spesso ci si limiti solo a dire “è una cosa orribile” o “sono i soliti imbecilli” per poi ripiombare nell’indifferenza.
Ma in Belgio, così come in Francia e in Danimarca recentemente non ci si è limitati solamente alle parole, ma si è passati alle vie di fatto. L’editorialista ricorda con indignazione, i fatti di Tolosa e il massacro davanti a una scuola ebraica, a Bruxelles le vittime davanti al Museo ebraico, così come quello che è successo all’inizio di quest’anno a Parigi. “Si uccidono degli ebrei, solamente perché sono di religione ebraica”.
Il quotidiano “Le soir” si interroga sulla pericolosità di questi fenomeni e sulla questione altrettanto spinosa che le nostre società sembrino non considerarne l’effettiva gravità. “Ci sono state diverse denunce di questi fenomeni ma le conseguenze sembrano essere decisamente sottovalutate”. La Delvaux rimprovera che “alla fine molti di noi trovano “normale” che le scuole ebraiche e i centri culturali ebraici siano costantemente sotto sorveglianza, senza pensare a cosa significhi per i bambini e gli adolescenti recarsi ogni giorno a scuola in queste condizioni, protetti dall’esercito e percependo il rischio di essere sempre in pericolo. Solo perché di religione ebraica”.
Parole dure e chiare quelle di questo editoriale che prosegue con toni sobri e al tempo stesso modo molto diretti. “ I video diffusi recentemente mostrano che gli ebrei s’interrogano sempre più frequentemente sull’eventualità di lasciare il Belgio alla volta di Israele, anche se queste immagini sembrano controverse anche per la comunità ebraica locale; esse, in ogni modo, pongono una serie di interrogativi a tutti noi”.
“C’è molta paura di esporsi” prosegue il testo “esitazione nel definirsi ebrei e nel dare il proprio nome durante i sondaggi e le interviste”, fa sapere l’editoriale. “Lo dimostrano la reticenza delle persone contattate a raccontare a viso scoperto la loro quotidianità, la difficoltà nel parlare dei loro rapporti con la comunità, coi musulmani e con Israele”.
“Noah e Emmanuel, Tal e Geraldine, Raphael e Nathalie e lo scrittore Alain Berenboom” sono alcune tra le persone interpellate da “Le soir” “ci permettono di capire in maniera molto approfondita e rivelatrice, non solo la complessità delle loro vite” scrive l’editorialista, “ma anche la condizione ebraica nel Belgio di oggi”. “Ebrei e musulmani si sono improvvisamente trovati in opposizione fra loro, stigmatizzati in vari stereotipi e alcuni di loro provano a stuzzicare odio e antagonismo reciproco. Ma spesso fra gli intervistatori emerge una preoccupante ignoranza reciproca”.
Il quotidiano conclude con questa nota. “Chi sono gli ebrei belgi oggi? Qual è il sentimento che li lega alle loro radici religiose e culturali? Come vivono e cosa ci mette in relazione con gli ebrei e Israele, quale ruolo ha il conflitto fra israeliani e palestinesi nel rifiuto antiebraico che sta attraversando le nostre società contemporanee?” Interrogativi importanti e di non facile risposta. “Oggi gli ebrei sono spaventati e questa realtà non dovrebbe lasciarci indifferenti” sottolinea la Delvaux “la fuga degli ebrei dal Paese e questa nuova e intollerabile realtà non promette nulla di buono”.
Aliyà in crescita
In seguito ai ripetuti fenomeni di antisemitismo, circa 250 ebrei solo nel 2014 hanno lasciato il Belgio alla volta d’Israele. Un dato sicuramente significativo, rispetto ai 3mila ebrei presenti sul territorio, fornito dall’Agenzia ebraica e riportato sul sito dell’autorevole quotidiano belga “Le soir”. Il fenomeno è la conseguenza di cinque anni di grande antisemitismo nazionale e “d’importazione” come hanno specificato Betty Dan, presidente dell’OSB, Organizzazione sionista belga e Henri Benkoski, vice presidente del (CCOJB) Comitato di Coordinazione delle organizzazioni degli ebrei belgi.
A questo proposito il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha recentemente rinnovato, domenica scorsa, il suo appelo agli ebrei europei a emigrare verso lo Stato ebraico, specialmente in seguito ai fatti di Copenaghen.
Tornando al Belgio, il sito della testata Le soir fa sapere che soprattutto in seguito al caso Nemnouche, come sottolineano Betty Dan e Henri Benkoski, emigrare è diventata un’urgenza che è iniziata negli anni Novanta quando un centinaio di ebrei belgi lasciarono il Paese e negli anni duemila altri 150 hanno fatto la stessa cosa.
Proseguendo coi dati e le informazioni statistiche, il sito sottolinea che specialmente dal 2010, le aliyoth dal Belgio hanno avuto un aumento spaventoso fino al dato dell’anno scorso che arrivava a 250 partenze. La domanda di emigrazione verso Israele è cresciuta talmente tanto che un vero e proprio centro per l’Aliyah è stato organizzato per la prima volta, in Belgio, a Bruxelles, all’hotel “Thon Stephan”, domenica 1 marzo.
“Nonostante la situazione decisamente difficile”, come ha evidenziato Benkoski, “lo Stato ebraico rappresenta senza alcun dubbio la migliore fra le possibilità”. Proseguendo egli ha detto che “gli ebrei all’inizio saranno un po spaventati perché la vita lì è più dura ma vivranno in condizioni di maggiore sicurezza”.