di Ilaria Myr
«Noi chavisti siamo i nuovi ebrei del XXI secolo che Hitler ha perseguitato. Non portiamo la stella di David, ma i cuori rossi pieni di desiderio di combattere per la dignità umana. E li sconfiggeremo, i nazisti di questo secolo». Questa la dichiarazione choc del presidente venezuelano Nicolás Maduro riguardo agli attacchi ricevuti da suoi famigliari che vivono fuori dal Venezuela. Nelle ultime settimane, infatti, alcuni venezuelani, trasferitisi all’estero per il caos economico che vige nel Paese, hanno attaccato verbalmente rappresentanti politici e membri della famiglia del Presidente in visita nel Paese dove si trovano ora, accusandoli di spendere soldi in viaggi all’estero mentre in Venezuela si muore di fame e mancano le medicine. L’ultimo episodio è avvenuto in Australia, dove alcuni militanti venezuelani hanno attaccato la figlia di Jorge Rodriguez, uno dei membri del governo del precedente presidente Chavez, che si trova in Australia per gli studi in un’università molto elitaria e che conduce lì una vita molto frivola, senza interessarsi in nessun modo della sorte del suo Paese, in profonda crisi.
Maduro, inoltre, ha commentato in una trasmissione televisiva, che le manifestazioni avvenute a Caracas contro il suo governo ricordavano i cortei durante il nazismo e il fascismo prima della Seconda guerra mondiale.
Gli oppositori di Maduro, infatti, che lo accusano di essere un dittatore che posticipa le elezioni e cerca di riscrivere la costituzione, organizzano manifestazioni di protesta tutti i giorni dai primi di aprile. A oggi più di 40 partecipanti sono stati uccisi dalla polizia.
Davanti al paragone ebrei-chavisti, immediata è stata la reazione della Comunità ebraica venezuelana. In un comunicato stampa ha dichiarato: «La CAIV (Confederación de Asociaciones Israelitas) ribadisce la propria posizione di rigetto di qualsiasi paragone o menzione inadeguata che stimoli una campagna di banalizzazione e negazione della Shoah, così come il processo di revisionismo che tanto danneggia la ricerca storica, offende la memoria delle vittime e di tutti coloro che hanno subito un lutto in questo tragico episodio dell’umanità».
La Confederación rifiuta inoltre qualsiasi manifestazione di intolleranza, aggressione verbale o fisica da qualsiasi direzione arrivi. «Questo episodio della storia, che spense la vita di sei milioni di ebrei, di cui un milione di bambini, resta unico e incomparabile. Menzionarlo e utilizzarlo costituiscono una banalizzazione di ciò che è successo».
Antisemitismo al potere?
Già Hugo Chavez, predecessore di Maduro, nei suoi 14 anni al potere in Venezuela aveva rilasciato in più occasioni dichiarazioni poco rispettose nei confronti degli ebrei, additandoli come “responsabili della profonda crisi economica e finanziaria e della corruzione vigenti nel Paese” sotto il suo regime.
D’altro canto, però, Chavez aveva sempre respinto le accuse di essere antisemita, bollandole come attacchi della destra.
Un’altra fonte di preoccupazione per gli ebrei venezuelani è costituita da Tareck El Aissami, ex Ministro degli interni ai tempi di Hugo Chavez e nominato vicepresidente dal Presidente Maduro nel febbraio di quest’anno. Aissami, che sarebbe conosciuto anche ai servizi segreti americani, è sospettato di avere preso parte a un traffico di stupefacenti controllato dal Venezuela, e di avere relazioni con l’Iran, la Siria e Hezbollah, essendo lui stesso sciita. Avrebbe addirittura, secondo il Simon Wiesenthal Center, ospitato Basher al-Assad nella capitale Caracas. Inoltre, come Ministro degli interni di Chavez, avrebbe partecipato a un programma clandestino per fornire dei passaporti venezuelani a narcotrafficanti e terroristi di Damasco, tanto che il Wall Street Journal l’aveva accusato di trasformare il Paese nel centro propulsore del traffico di cocaina. «Capo della rete mediorientale, rivoluzionario cubano e chavista ambizioso, El Aissami è un sogno divenuto realtà per Teheran e L’Havana. Ciò fa di lui un uomo potente in Venezuela».
L’accusa però più pesante è di avere partecipato come intermediario tra l’Iran e l’Argentina nei tentativi di nascondere la complicità di Teheran nell’attentato al centro ebraico AMIA di Buenos Aires, in cui erano morte 85 persone e 300 erano rimaste ferite.
Dal canto loro, i membri della Comunità ebraica del Venezuela sono preoccupati che Aissami possa mettere in atto delle azioni antisemite nel Paese.
«Non solo Aissami è implicato in un traffico di droghe e ha relazioni con il movimento colombiano terrorista dei FARC, ma ha anche ereditato dall’ex presidente Hugo Chavez l’odio contro Israele e gli ebrei – ha dichiarato al Times of Israel Ariel Gelblung, rappresentante del Simon Wiesenthal Center in America Latina -, e può a oggi mettere in atto le politiche antisemite di Maduro, minacciando ancora le vite degli ebrei nel Paese».
La paura, insomma, è che Aissami possa trasformare l’antisemitismo dilagante nel Paese in atti politici, trasportando così il conflitto medio-orientale in America Latina.
Da segnalare come, a metà marzo, gli Usa gli avessero impedito l’ingresso nel Paese, accusandolo di avere un ruolo centrale nel traffico internazionale di stupefacenti, oltre che di antisemitismo e di legami con l’Iran e Hezbollah.
Israele, tentativi di avvicinamento
Eppure, nonostante i fatti preoccupanti raccontati fino a qui, non mancano alcuni segni che fanno sperare in qualcosa di positivo. La prima notizia, risalente al marzo di quest’anno, riguarda i rapporti fra il Venezuela e Israele, dopo otto anni dall’espulsione dell’ambasciatore israeliano. Il Ministro degli esteri venezuelano avrebbe infatti espresso al Grande Rabbino del Paese «il desiderio di ristabilire delle piene relazioni con lo Stato di Israele».
«Abbiamo suggerito di cominciare con un periodo di frequentazione reciproca – ha dichiarato il Gran rabbino sefardita del Venezuela, Isaac Cohen, a AJN News -, che significherebbe cominciare a ristabilire delle relazioni consolari, con l’obiettivo che diventino poi un matrimonio, vale a dire un’ambasciata israeliana in Venezuela com’era sempre stato fino a otto anni fa».
«Sono ortodosso e rabbino sionista e per me sarebbe una grande gioia vedere la bandiera israeliana sventolare di nuovo qui in Venezuela come in ogni Paese in cui vive una Comunità ebraica – ha continuato Cohen, che sarebbe in contatto con il Ministero degli esteri israeliano per questa vicenda -. Questo ci darebbe pace e tranquillità».
Già in febbraio, però, lo stesso presidente Nicolas Maduro aveva incontrato una delegazione ebraica formata anche da Cohen al Palazzo del governo per rinforzare una relazione che negli ultimi anni aveva affrontato molti ostacoli.
«Una bella giornata di dialogo per la pace. Rafforzare la coesistenza e il dialogo fra le civiltà e fra le religioni per consolidare la nostra nazione», aveva twittato Maduro dopo l’incontro.
Ieri, oggi, domani
Tutto ciò avviene in un Paese che oggi conta una popolazione ebraica di 9.000 ebrei, 90 per cento dei quali nella capitale Caracas. I primi ebrei arrivarono qui nel XVII secolo, ma una vera e propria Comunità si ha dalla metà del XIX secolo. Una testimonianza importante di quel periodo è il Mikve ritrovato di recente a Coro, capitale dello Stato di Falcon nell’ovest dello Stato, durante gli scavi per il restauro di un museo. In questa città si stabilì nel 1827 una comunità di mercanti ebrei di Curaçao, con l’obiettivo di trasportare in terraferma i loro commerci.
La popolazione locale non vide di buon occhio l’espansione e l’arricchimento di questa comunità, tanto da costringerli a lasciare il Paese trent’anni dopo. La scoperta del bagno rituale, secondo il presidente dell’Istituto del patrimonio culturale del Venezuela, Omar Vielma, costituisce un precedente per preservare il sito come primo luogo in cui si stabilirono degli ebrei e poterlo riconoscere, nel prossimo futuro, come una parte del patrimonio culturale venezuelano. La zona dove è stato trovato il mikve è stata donata alla Comunità ebraica e diverrà oggetto di studio da parte della Scuola di antropologia del Venezuela.
Fino all’ascesa al potere di Hugo Chavez, la situazione degli ebrei era stata idilliaca: negli anni Novanta erano 25.000, ben inseriti nella società, gli unici nel continente sud americano a poter essere fieri che il proprio Paese non avesse ospitato rifugiati nazisti. Composta per metà da askenaziti scampati alla Shoah e per metà da sefarditi, vantava una vita ebraica serena e fiorente. Con l’arrivo di Chavez (1999), la situazione si è capovolta: rigurgiti antisemiti senza precedenti hanno cominciato a dominare i media locali, uniti a una forte componente populista, tipica del regime chavista.
A tutto ciò, si aggiunse la politica apertamente anti-americana e anti-sionista di Chavez, coronata in alleanze con gruppi terroristici (come il gruppo narco-terrorista colombiano Farc) e regimi del terrore: fra questi, la Libia, che assegnò a Chavez il Premio Internazionale Gheddafi per i diritti umani, la Siria, Hezbollah e, ovviamente, l’Iran. Amico fraterno di Ahmadinejad, Chavez è stato uno strenuo difensore della politica nucleare iraniana.
Tutto ciò ha portato a una crescita degli atti di antisemitismo (profanazione di cimiteri, atti vandalici contro sinagoghe e centri ebraici), costringendo la popolazione ebraica locale a una massiccia emigrazione all’estero (Usa, Spagna, Israele, Colombia o Panama). Questa importante decrescita della popolazione ebraica, di fatto dimezzata, ha portato di recente alla chiusura di una delle due più grandi scuole ebraiche: ne rimane oggi una grande, per bambini dai 4 ai 18 anni, in cui il numero di frequentanti è sceso vertiginosamente, e una più piccola, ortodossa. E per il prossimo futuro, si spera che i numeri non scendano ancora.