di Vittorio Robiati Bendaud
Disinformazione, immagini manipolate, fotografie ritoccate, titoli di quotidiani sempre parziali o faziosi, da cui emerge uno Stato di Israele in negativo e dalla parte del “cattivo”. Ancora una volta, per tutta l’estate, il racconto della guerra con Gaza da parte dei media occidentali è stato caratterizzato da clichè e da un partito preso anti israeliano che lascia sbigottiti.
Che Israele avesse da sempre un problema d’immagine, lo si sapeva. Ma mai come oggi ci sembra essere urgente un radicale cambiamento di strategia in termini di comunicazione. Su questo tema abbiamo intervistato Federico Petrelli, 30 anni, milanese della nostra kehillah, oggi Consigliere alla Rappresentanza Permanente di Israele presso le Nazioni Unite. Dopo brillanti studi in diplomazia e strategia all’Interdisciplinary Center di Herzliya e all’Università di Georgetown, Petrelli ha lavorato presso l’American Jewish Committee.
«Il mio ruolo all’Onu non coinvolge solo l’aspetto dell’immagine di Israele ma riguarda soprattutto, questioni di sviluppo. Nei suoi 60 anni di esistenza, Israele è un Paese che ha fatto un impressionante salto di qualità, da paese povero, a paese all’avanguardia. Il nostro Ambasciatore ama dire che siamo passati dall’esportare arance a disegnare microchip per la mela (Apple).
L’immagine di Israele in relazione ai diritti umani e ai temi ambientali è spesso ignota ai più, risultando compromessa dall’immagine di un Paese in guerra…
È vero. Ma l’ammirazione per i suoi successi è comunque grande. Al Ministero degli Esteri ci impegniamo costantemente per far conoscere gli aspetti di Israele che “non fanno notizia”. Lo facciamo in vari modi: attraverso un incessante lavoro di diplomazia pubblica, programmi di cooperazione per lo sviluppo o, ancora, attraverso il nostro contributo al lavoro dell’Onu nei diritti umani.
Che immagine di sé comunica Israele, specie quando c’è in ballo un conflitto, come adesso?
Il messaggio è che Israele vuole la pace, sopra e prima di ogni altra cosa. Ma anche che il mondo capisca che il terrorismo con il quale ci confrontiamo è un problema globale, e che è nell’interesse di tutti sconfiggerlo.
Come combattere la disinformazione riguardo ad Israele?
Inaugurando un dialogo diretto con la gente, attraverso i social media. Sui giornali, spesso, gli eventi del Medio Oriente sembrano lontani o astratti. Attraverso i social network, invece, abbiamo la possibilità di mostrare storie, volti e immagini che rimarrebbero altrimenti sconosciuti. Ovviamente questa è solo una delle tante cose che facciamo al riguardo, ma credo sia una delle più importanti.
Israele ha ultimamente adottato nuovi elementi nella propria strategia mediatica. Un tempo, i diplomatici di tutto il mondo si concentravano sulla“comunicazione verticale”: un rappresentante del Governo comunicava messaggi precisi ad un pubblico vasto, ad esempio attraverso comunicati stampa o apparizioni in tv e sui mass media. Oggi, Israele sta lavorando alla diffusione e all’ottimizzazione di una “comunicazione orizzontale”.
In particolare, di che cosa si tratta?
Le reti sociali hanno rivoluzionato il modo in cui riceviamo informazioni. Se un tempo le notizie andavano “da uno a molti” (ad esempio dalla redazione ai lettori di un giornale), ora sono comunicate “da molti a molti” (ovvero tra gli amici di Facebook). Insomma, urge creare una comunicazione interattiva, un dialogo. La sfida è offrire contributi significativi, raggiungere un ampio numero di persone e creare curiosità e interesse verso gli svariati volti di Israele, la sua realtà poliedrica, tutte cose che emergono poco sui media. Ovvero raccontare le realtà di Israele in modo diretto, senza filtri. La buona notizia è che questo strumento è disponibile a tutti: ognuno può fare la sua parte in favore di Israele.
Quindi, oggi, ogni ebreo e Comunità ebraica, specie in Diaspora, hanno il compito e la possibilità di “rappresentare” Israele?
Sì, ed è bene che lo si faccia in modo sistematico e massiccio. Pensa che nella mia Università in Israele gli studenti hanno dedicato una sala computer esclusivamente agli sforzi di Hasbarà in tempi di crisi come questi, e lavorano incessantemente sui social network per difendere Israele.
Gli ebrei italiani sono pochi. Non c’è il rischio che un tale lavoro risulti vano?
Lo svantaggio numerico è secondario. Per diffondere un’informazione corretta su Israele, si può colmare il gap numerico rivolgendosi alla gente sulla base di interessi condivisi. Agli ambientalisti va raccontato dell’impegno di Israele in fatto di tutela dell’ambiente; agli LGBT (Lesbiche, Gay, Bi e Trans), occorre informarli di quanto faccia Israele nella tutela dei loro diritti; alle organizzazioni per la salvaguardia dei diritti umani, va raccontato quanto sia forte l’impegno e la capacità di integrazione e tutela delle diversità etniche, religiose e di genere, una caratteristica straordinaria, questa, della società israeliana. Israele all’ONU corre lungo un doppio binario. Mentre al Consiglio di Sicurezza si discute degli eventi bellici, nella Seconda Commissione dell’Assemblea Generale Israele fa valere la sua “agenda positiva”.
Puoi essere più esplicito?
Israele ha molto da dare all’impegno dell’ONU nell’ambito dello sviluppo. Abbiamo già presentato due risoluzioni all’Assemblea Generale negli ultimi anni – Tecnologie agricole e Imprenditoria per lo sviluppo -. Sono due campi in cui Israele ha una preziosa esperienza da condividere, e per i quali godiamo di grande ammirazione ed interesse a livello internazionale. Queste risoluzioni riflettono il nostro impegno per lo sviluppo in Africa, Asia e America Latina. Io mi occupo, in particolare di sette Paesi nell’area caraibica. Ci battiamo per i diritti delle donne, per la salute pubblica, lo sviluppo economico, agricolo e imprenditoriale, per l’istruzione…
La sfida, per noi, è resistere alla tentazione di dedicarci esclusivamente a spiegare le nostre ragioni nel conflitto. È essenziale far sapere a tutti quanto sia importante per Israele l’impegno su tutti i fronti di crescita.
Ci fai degli esempi concreti?
Israele è leader mondiale in ambito agricolo, con tecnologie all’avanguardia. Ogni anno, più di 1400 professionisti dell’agricoltura, da più di 80 Paesi, vengono in Israele per partecipare a corsi di specializzazione. In quanto start up nation, facciamo molto per promuovere l’imprenditoria. Dagli anni Cinquanta a oggi, in America Latina, più di 22.000 persone hanno partecipato ai nostri corsi in questo ambito.
La percezione dell’immagine di Israele sta quindi cambiando?
In generale, direi di sì. All’ONU occorre distinguere tra quanto accade a livello ufficiale e istituzionale, dove spesso si esasperano l’equidistanza e una certa “freddezza diplomatica” da parte di alcuni Stati, e dimostrazioni anche commoventi, nei corridoi, di vicinanza e comprensione. Questo, in particolare, è accaduto quando sono stati uccisi Eyal, Gilad e Naftali, i tre ragazzi di yeshivah.
Da diplomatico, israeliano ed ebreo italiano, che cosa dici dell’antisemitismo europeo?
Che è un fenomeno estremamente preoccupante e serio, a cui cerchiamo di far fronte anche noi. Un’opinione del tutto personale? Molti in Europa sembrano essere convinti di possedere una certa superiorità morale in fatto di diritti. Me ne accorgo spesso quando sento le critiche europee ad Israele. Indubbiamente, l’Europa unita, nata dalle ceneri della Seconda Guerra Mondiale e della Shoah, è un successo fenomenale. Ma c’è ancora molto da fare. Mi spiego: l’identità di ciascuno di noi è, in realtà, costituita da identità plurime. Milano, ad esempio, è relativamente una buona città dove vivere se sei ebreo; Parigi, invece, è gravata da non poche difficoltà, vedi le violente manifestazioni antisemite. Viceversa, se si è gay, vivere a Parigi è facile, in Italia meno. E che dire di New York e delle grandi città Usa? Tutte realtà che non vedono nella differenza nessun problema ma un potenziale, la celebrazione – non la tolleranza – della diversità. Israele? La mia esperienza è stata quella di piena accoglienza della mia persona nelle mie molteplici e svariate identità. Nessuno, come gli israeliani, è capace di farti sentire a casa, prenderti per quello che sei. Israele è stanco di guerre. Il giorno in cui tutti i nostri vicini vorranno vivere in pace con lo Stato di Israele e i suoi abitanti, noi saremo pronti; il resto verrà da sé.