di Roberto Zadik
I Giusti spesso sono persone comuni che vivevano, sia nelle grandi città che nei piccoli centri, nascosti nella normalità e nella quotidianità. E così, nei bui anni del nazifascismo, accanto ai tragici episodi che ne segnarono l’atrocità, ci furono anche storie positive, persone Giuste e semplici cittadini capaci di compiere gesti straordinari che permisero a centinaia di ebrei di mettersi in salvo dalle persecuzioni e dalla morte nei lager.
Accadde così anche a Tirano, all’Aprica e a Villa Tirano, suggestive località turistiche non lontane dalla neutrale Svizzera, che nell’autunno 1943 gli abitanti salvarono “oltre duecento ebrei stranieri che erano stati internati nella piccola località di Aprica”. Così recita un frammento del bel libro di Alan Poletti “Una seconda vita” pubblicato dal Comune di Aprica che racconta con linguaggio semplice e efficace la storia di quelle persone come quella guardia di confine svizzera che salvò la vita a 72 internati ebrei.
Fra queste però ci fu la parentesi tragica raccontata da suo figlio Johann, di Benno Ragendorfer unico internato che morì assieme alla moglie e alla figlia nei lager dopo l’arresto da parte della Milizia nazifascista sul confine svizzero l’11 dicembre 1943. A parte questo episodio il Comune di Aprica mantenne, come ha fatto sapere il sindaco, Carla Cioccarelli, “un ruolo di primo piano ospitando gli ebrei del campo di concentramento” grazie alla “fraternità e alla solidarietà dei suoi abitanti. Una bella pagina di storia che mi fa sentire onorata come sindaco di rappresentare la comunità che l’ha scritta”.
Ma come mai quelli ebrei si trovavano li? E chi furono le persone, i Giusti che li salvarono? Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 tanti ebrei fuggirono verso la Svizzera passando fra le tante zone anche dalla provincia di Sondrio e dalla Valchiavenna che guidati dai contrabbandieri si scambiarono informazioni fra loro col passaparola. Come ha ricordato Sergio Levy “Assieme a mio padre e ai miei fratelli siamo fuggiti da Cernobbio a Madesimo. Ci hanno consigliato di scappare e l’abbiamo fatto fra molti pericoli”. Coraggio e fuga, speranza e libertà. Con queste parole d’ordine aiutati da contrabbandieri, così come da parroci, fra questi don Cirillo Spinetti, condannato al confino in Svizzera o don Luraschi arrestato e don Camillo Valota e don Giovanni Tavasci, deportati nei lager, gli ebrei della zona scamparono ai massacri dei loro Paesi d’origine e dell’Italia fascista.
È il caso di Edo Neufeld, ebreo croato nato a Zagabria e internato nel campo di Jadovno che rievoca nel libro di Poletti i suoi giorni all’Aprica e lo fa attraverso la memoria di Vera sua figlia che con un suo articolo ha ispirato il testo. “Con mia grande felicità il 5 febbraio 1942 venni liberato e fui inviato ad Aprica che era una stazione climatica, dove sarei stato internato e dove avrei potuto incontrare la ma famiglia. Dopo cinque mesi ero finalmente libero dall’incubo di essere rimandato in Croazia”. Questa era solo una delle tante storie, sconosciute finora, e rese note dal testo e da altri documenti di ebrei liberati e di Giusti rimasti nell’ombra per troppo tempo.
Ad Aprica c’erano tanti ebrei stranieri che provenivano dalle ex Jugoslavia e più precisamente dalla Croazia, ma come mai? Nel 1941 la Jugoslavia venne martoriata dai nazisti e brutalmente espulsi dalle forze militari croate, i feroci Ustascia, molti ebrei si trovarono in Italia perché la Croazia era stata annessa al nostro Paese. Questa annessione, come specifica il testo di Poletti “permise alle truppe italiane di reagire contro il genocidio, per strappare ebrei e serbi alle zone di terrore e nasconderli in posti sicuri nelle zone annesse all’Italia o in Italia stessa. “A temperare però questo ‘buonismo’ sul comportamento delle truppe italiane fasciste nei Balcani ci pensa lo storico Davide Rodogno che specifica “l’esercito italiano a volte agì per ragioni umanitarie ma si trattava di persone normali o provenienti dai ranghi più bassi dell’esercito occupante”.
Insomma tanta fu la ferocia dell’Italia di Mussolini, e non bisogna dimenticarselo mai, anche nei Balcani e la politica del tempo fu “violentemente antisemita anche se -come disse Hanna Arendt- molti italiani possedevano ancora quella umanità generalizzata e quasi automatica propria di un popolo antico e civilizzato”. Proprio questa umanità salvò tanta gente sfollata dalla Croazia e dalla Serbia, senza generalizzare troppo per non scivolare in grandi banalità come il detto “italiani brava gente”, di persone semplici e ordinarie, ma di buon cuore. Giusti senza cercare onori e glorie come Bruno Pilat, brigadiere dei Carabinieri comandante della Stazione di Aprica che come ricorda la Stele della Memoria, monumento inaugurato nel giugno 2013, “con generoso slancio ed eccezionale senso di abnegazione si adoperò durante l’occupazione nazista favorì l’espatrio di molti cittadini ebrei jugoslavi verso la Svizzera proteggendoli dalle violenze fisiche”. Venne catturato e deportato in Germania dove subì stenti e privazioni fino al rientro dopo la Guerra. Diverse furono dunque le storie di coloro che, come il finanziere, Claudio Sacchelli, si adoperarono per salvare vite anche a rischio di morire e di finire i propri giorni nelle angustie dei lager, come Sacchelli che morì a Mathausen “di stenti e di sevizie”.
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