di Jonathan Misrachi
“Il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni”, scriveva nel 1866 Fëdor Dostoevskij. Se fosse veramente così l’Italia sarebbe tra le più incivili, ne è la prova la condanna della Corte Europea dei diritti umani di Strasburgo, arrivata nel gennaio del 2013 “per trattamento inumano e degradante dei suoi detenuti”.
L’Italia ha dovuto così correre ai ripari, una serie di rimedi che riportassero il trattamento intramurario a livelli degni di un Paese civile. Ma l’Italia è anche il Paese delle eccellenze (poche) nel trattamento penitenziario. La protagonista di uno di questi progetti è Lucia Castellano, direttrice di numerosi istituti penitenziari fra cui quello di Bollate, emblema del carcere modello in cui il recupero dei detenuti è lo scopo prioritario. Attualmente Consigliere regionale, Lucia Castellano è un’autorità a pieno titolo di percorsi verso la libertà e liberazione da forme contemporanee di schiavitù. Per questo interverrà domenica 14 settembre nell’ambito di Jewish in the city alla maratona dal titolo “Da quale schiavitù dobbiamo liberarci?”, in programma alle ore 20.30 al Teatro Franco Parenti.
«Il percorso verso la ricostruzione di una propria libertà reale ed effettiva da parte dei detenuti rappresenta il deserto, così come lo rappresentava per il popolo ebraico, che dopo la schiavitù cammina alla ricerca della libertà. È lo stesso cammino impervio, funzionale alla costruzione della propria libertà che percorrono i detenuti», dice Lucia Castellano, sottolineando i collegamenti fra la festività ebraica di Pesach e il mondo carcerario. «I reclusi percorrono un sentiero impervio per poi costruirsi la propria libertà. Il carcere è, inoltre, “il deserto degli affetti”, essendo che ciascun individuo viene privato del contatto coi propri famigliari (sono concesse solo sei ore al mese), ed è anche il deserto dell’intimità, dello spazio personale, perché il carcerato è annullato nella sua dignità. Attraverso questo deserto la legge prevede che il detenuto costruisca la sua libertà; ma c’è da dire, tuttavia, che questo deserto non deve mortificare e diventare il deserto della personalità, della dignità e della convivenza civile. Anzi, dovrebbe proporre opportunità, perché la permanenza in carcere deve somigliare alla vita reale». Nel carcere di Bollate vi sono scuole di ogni ordine e grado, aziende, un teatro, palestre, biblioteche, ludoteche per gli incontri con i figli minori. L’istituzione permette dunque ai detenuti una certa libertà di movimento e di organizzazione della propria giornata. Di contro, il detenuto si impegna a partecipare, assieme agli operatori, all’organizzazione della vita carceraria con un sistema di compartecipazione. Questo progetto riuscito è diventato d’esempio in tutta Italia ed è sopravvissuto grazie a tre ingredienti fondamentali, spiega Lucia Castellano. «In primis abbiamo mantenuto la maggior libertà possibile compatibile con la pena, garantendo una certa autonomia». Dopodiché vi è il «lavoro di squadra, indispensabile per qualsiasi progetto, dalla polizia penitenziaria ai volontari e agli operatori: non dimentichiamo che il carcere è un deserto dell’anima anche per chi ci lavora dentro. E senza collaborazione, l’esito positivo di un progetto così difficile diventa impossibile». E infine: «Il rapporto con la città.
Uno dei primi obiettivi del progetto è stato quello di condividere l’organizzazione con enti esterni. L’apertura ad altre culture e religioni, fra cui anche quella ebraica, è fondamentale. Il carcere è parte integrante della città, così come lo è una scuola o un ospedale e il rapporto con essa dev’essere di dare-avere. Il carcere vuol essere una risorsa per la città.».
Ma il vero lavoro, per Lucia Castellano, va svolto al di fuori delle carceri, con la prevenzione. Poiché quello carcerario è l’ultimo anello di una catena scellerata. E gli stranieri? Come si fa con loro, con i loro usi, valori, costumi diversi? «Ci sono carceri con altissime percentuali di membri non italiani e il percorso che si presenta è ancor più difficile poiché non si tratta più solo di rieducare e ricostruire una vita, come con gli altri. Per questi condannati, molti dei quali senza nemmeno un nome, inesistenti per il Governo Italiano, si parla di una vera e propria educazione alla libertà, una ripartenza da zero. A cominciare, appunto, dal nome».