di Fiona Diwan
2- SALERNO – Tonache e kippot, clergyman e maghen david, barbe e tonsure, il saio marrone dei francescani che si mescola ai cappelli a larghe tese dei rabbanim. Preti seduti alla tavola kasher dei rabbini, o per chiacchierare a cena insieme al folto gruppo di ebrei presenti. Non è comune tutto ciò e fa un curioso effetto. L’insieme è composito, vociante, ovviamente insolito e sorprendente.
Siamo a Salerno, sulle sponde languide del Mediterraneo dove, dal 24 al 26 novembre 2014, al Grand’hotel Salerno, più di 400 persone si sono incontrate durante un meeting promosso dalla CEI (Conferenza Episcopale Italiana), per imprimere un passo più spedito al dialogo tra ebrei e cristiani, dialogo gravato da millenni di pregiudizio, travisamenti, antigiudaismo e persecuzioni che hanno lasciato una scia di sangue difficile da dimenticare ma forse non impossibile da superare. Un incontro che ha anche il sapore di un tikkun, una riparazione, o almeno di un suo inizio.
Visionari, utopisti, sognatori? Forse, sarà ciò che accadrà dopo questo meeting a dircelo, i frutti che germoglieranno dai semi lanciati qui. E a una condizione: che il confronto, lo sguardo di affetto, l’empatia, non si spengano oggi. E che la fratellanza e il cammino comune auspicati, non restino parole vuote, scivolando in un’altra, non più sopportabile, retorica. Riflettori sul dialogo che, nessuno lo nasconde, non sono facili da tenere accesi.
Eppure i tempi incalzano: la persecuzione delle minoranze cattoliche in Medioriente, gli assassinii e la cancellazione di comunità cristiane millenarie come quelle in Africa o di lingua aramaica in Iraq, ripensano la geografia delle alleanze e forse aiutano a riscrivere la storia dei rapporti tra i due monoteismi. Ma l’incontro di Salerno è indiscutibilmente anche merito dei tardivi frutti della dichiarazione Nostra Aetate del 1965. Un dialogo irto di difficoltà e spesso poco digerito e accettato sia in campo ebraico che cristiano, tuttavia perseguito con testardaggine visionaria, per decenni, da Rav Giuseppe Laras e il Cardinal Carlo Maria Martini, e che oggi vede in prima fila l’impegno dei loro discepoli.
«Un dialogo essenziale se vogliamo che il mondo libero sopravviva», esordisce Rav Shlomo Riskin, ortodosso, ordinato rabbino da Rav Solovetchik in persona, presidente dei Colleges Or Torà Stone, vero combattente del dialogo che ha aperto, tra l’altro, lo studio della Torà anche alle donne, iniziativa che forse cambierà il corso della storia ebraica. E prosegue: «Sono qui con un senso di grande gravitas, serietà. Vengo da Israele: ci accusano di voler controllare la spianata delle moschee e Al Aqsa, a Gerusalemme. Ma le cose non stanno così: su quella spianata noi non possiamo mettere piede, è totalmente fuori controllo, e questo in barba al fatto che siamo stati proprio noi israeliani a consegnare le chiavi di quel luogo alle autorità arabe all’indomani della Guerra dei Sei Giorni, perchè ci sembrava giusto che fossero loro a gestirla. Ma non così, non in questo modo totalitario, minaccioso per la nostra sicurezza. Questo nostro incontro è un grande passo sul cammino del tikkun. Abbiamo molte cose in comune con il mondo cristiano anche se la figura di Gesù ci unisce e nel contempo ci divide. La Torà è dialogo tra Dio e l’uomo e questa è l’essenza della preghiera ebraica che contiene in sé, sempre, lo studio della Torà: per noi ebrei, tra Scritture e preghiera c’è sempre un legame profondo. Nella preghiera noi parliamo a Lui, chiedendogli che cosa si aspetta da noi. Nella Torà Lui parla a noi. E nella Torà, HaShem ci dice che vuole che noi ebrei diventiamo testimoni tra le nazioni del mondo (ad Avraham, Bereshit 21-3, «farò di te una grande nazione e attraverso di te saranno benedette tutte le nazioni del mondo”). Abramo simboleggia il chesed, compie atti di amore e giustizia e per questo Dio lo ama. Nella Torà troviamo ben tre patti, tre Berit, tra Dio e il suo popolo: quello con Abramo, quello con Mosè e le 10 diciture (il patto del Sinai), e quello in Yehoshua 31-18, l’alleanza rinnovata prima di entrare in eretz Kenaan, quando si aprono le acque del Giordano. E anche nell’Anenu, la preghiera solenne del Kippur, Dio dice agli ebrei che cosa si aspetta da loro: rendere il mondo più perfetto e rinviare a Lui ciò che di male c’è nel mondo. Per tremila anni nessun filosofo è riuscito a costruire un testo morale così ampio e in continuo rinnovamento ermeneutico e esperienziale come la Torà. Poi qualcosa si ruppe. Un bel giorno giunse l’imperatore Adriano, sì proprio lui, e tutto cambiò, finì o perlomeno divenne molto difficile: i suoi editti cacciarono dalla Storia il popolo ebraico, lo annientarono neutralizzando la sua possibilità di tramandare il lascito morale delle dieci diciture. Ci fu lasciata solo la sopravvivenza e non più la forza per diffondere il messaggio morale della Torà, come era stato fatto fino ad allora, e come testimonia anche la figura di Gesù, che storicamente era ebreo tra gli ebrei, non dimentichiamolo.
«Viviamo un periodo molto difficile – prosegue Rav Riskin -: sì, si è verificato il miracolo di Israele, la riunione degli esiliati, il dialogo con il mondo cristiano, un altro miracolo anche questo. Ma oggi, siamo vicini a una guerra nucleare-religiosa: una delle tre religioni monoteiste ha perso la bussola morale, siamo sull’orlo di un precipizio, sia con l’Iran che con l’Islam politico che ha dichiarato guerra agli infedeli e che uccide chi non è musulmano. C’è un interpretazione Sufi dell’Islam che vuole un monoteismo etico. Ed nostro compito risvegliarlo dentro quel mondo».
Per Frère Pierre Lenhardt, docente del Centro Studi Ebraici di Ratisbona, teologo, linguista a Strasburgo, una vita di studi ebraici all’Università di Gerusalemme, il punto è, per la fede cristiana, fare propria la tradizione orale della Torà, il patrimonio del Talmud. Lenhardt cita il pensatore cristiano Jacques Maritain che dice che “è necessario distinguere per unire”. «Il cristianesimo non è la religione del Libro è la religione della parola di Dio, non un verbo muto ma incarnato e vivente. Le fonti giudaiche correttamente interpretate sono fondamentali per illuminare il Nuovo Testamento e la vita cristiana», spiega Lenhardt.
A questo punto Vittorio Bendaud introduce quelli che lui chiama «due pezzi da novanta, Monsignor Bruno Forte, arcivescovo di Chieti, uno degli intellettuali più significativi oggi in Italia (e non solo dell’Italia cattolica) e un colosso del pensiero ebraico, Rav Irving Izchak Greenberg, allievo quest’ultimo di Rav Solovetchik alla Yeshiva University, e tra i grandi oggi della corrente Modern Orthodox. Greenberg ha fondato il Museo Ebraico di New York, è autore di numerosi libri sull’ebraismo post-Shoah, un pensiero tutto giocato sul tema dei rapporti tra ebraismo e contemporaneità, insomma uno dei più grandi pensatori dell’ebraismo ortodosso oggi».
Alto quasi due metri o forse più, allampanato e dall’aria soave, Rav Iz Greenberg punta il suo intervento su un grappolo di temi dalle importanti implicazioni interpretative. «Questa generazione ha una grande responsabilità. Dopo la tragedia della Shoah un re-incontro tra ebrei e cristiani diventa fondamentale, non è più possibile continuare a denigrarci a vicenda. Ebraismo e Cristianesimo sono religioni che cercano la redenzione attraverso un’Alleanza tra Dio e l’umanità. E il tramite, il mezzo, è il popolo di Israele. Quando il Signore limita se stesso, lo fa per noi. Dio ha concesso capacità divina all’umano e il potere della libera volontà. Dio ha dato inoltre all’uomo tre forme di dignità: l’unicità, l’uguaglianza e il valore infinito. Dio recluta così l’umanità affinché lo aiuti a compiere l’opera. Parlo di una sorta di metodo redentivo dell’Alleanza: per non infliggere più il diluvio o altre ritorsioni divine, l’uomo deve riparare il mondo che Dio gli ha concesso. Una partnership che porta l’Altissimo e con lui l’uomo, a diventare soci nella Creazione. E che conduce all’infinito restringimento di Dio come gesto d’amore per l’Uomo, per fargli spazio. Certo, riconosco l’importanza del Cristianesimo come veicolo di diffusione morale e dei precetti contenuti nelle 10 diciture della Torà, e questo malgrado il male compiuto dal mondo cristiano contro gli ebrei e contro altri popoli. Le religioni dell’Alleanza oggi, sono portatrici di luce all’interno dell’esperienza storica, ed entrare nell’Alleanza significa iniziare un viaggio che ci pone faccia a faccia con lo spirito dei nostri tempi, con le suggestioni delle culture di questo nostro tempo o luogo, con i trend e gli stili di vita della contemporaneità. Ma attenzione, interfacciarsi troppo con i trend e con ciò che governa il nostro momento storico rischia di fare impallidire lo spirito dell’Alleanza e di farla svanire, specie allorquando quei trend e quei mood culturali passeranno e svaniranno, superati da altre nuove mode culturali. Nei nostri giorni, oggi, Dio ha scelto di nascondersi maggiormente, si verifica un nuovo tzim tzum divino, un ritrarsi, generato dall’onnipotenza dell’uomo che ci sta precipitando in un mondo totalmente fuori controllo. La persecuzione dei cristiani in Medioriente, le altre persecuzioni come quelle di buddisti e induisti, lo stato di Israele come bersaglio costante, tutto questo ci parla di una onnipotenza dilagante. Ma intanto, nel frattempo, insieme possiamo riparare la nostra storia ferita, quella di ieri e di oggi, ed essere grati di essere qui, in questo tempo, adesso, in questa sala».
«Non si può dirsi cristiani oggi senza questa questa fedeltà,prossimità col popolo ebraico. Veniamo da lì, senza questa radice non saremmo cristiani. Quella con Israele è una relazione necessaria e indistruttibile. Ci sono tre icone per spiegarlo: prima di tutto quella degli esploratori che tornarono dalla terra promessa col grappolo d’uva, il melograno e il fico. I Padri della Chiesa hanno sempre colto nell’asta portata dai due gruppi di esploratori e ricolma di frutti, quello cristiano ed ebraico: insieme, guardano verso la stessa meta e sorreggono la stessa asta, con gli stessi frutti. Quali sono gli elementi di continuità nella discontinuità dei nostri rapporti? Innanzitutto il carattere escatologico della rivelazione, sia per ebrei che cristiani; indi, il carattere comunitario della salvezza, il senso del Kahal, la kehillà, e della Ecclesia, perchè non ci salva mai da soli. Terzo, il carattere messianico della propria identità religiosa», spiega Monsignor Bruno Forte, arcivescovo di Chieti e membro CEI, commissione episcopale per il dialogo. «E’ l’idea dell’infinito nel finito, della verità che si contrae per stare in mezzo a noi, del piccolo che può contenere il grande, è questo che unisce ebrei e cristiani. Il più grande che si rende accessibile al più piccolo, il divino che si rimpicciolisce per comunicare con gli uomini: è l’idea dello tzim tzum dell’Eterno che vediamo riflesso nell’idea cristiana di kenosi. Questa contrazione avviene nel DAVAR, nella parola. La Torà, la Bibbia, è la parola di Dio ma testimonia anche del silenzio di Dio. Come dice il grande pensatore ebreo Andrèe Neher nel testo Le silence de Dieu, Lui si esprime con una “voce di sottile silenzio”, silenzio che è l’esperienza di una presenza, non un’assenza ma una forma di linguaggio. C’è un Dio dei ponti sospesi, quello che cerca un dialogo sull’abisso, e poi c’è il Dio delle arcate spezzate… La forza dell’etica ebraica ci propone, come direbbe Levinas, una difficile libertà. “Amare la Torà più di Dio significa giungere a un Dio personale”, dice il filosofo francese. E da qui capiamo perchè la cristianità è figlia del pensiero ebraico, in toto – prosegue Forte, e conclude -. «Pensare significa trasgredire: una trasgressione simbolica, un andare oltre alle parole, non prenderle per buone una volta per tutte. Questa è un’idea profondamente ebraica, l’idea che la parola vada scandagliata attraverso gli abissi e attraverso l’interpretazione del testo. L’ermenentica nasce all’interno della tradizione ebraico cristiana, l’Islam ad esempio non prevede ermeneutica, l’interpretazione è proibita e costituisce peccato, il Libro è dato e immutabile. Nessun ebreo o cristiano possono vivere di rendita, del dejà vu: e il ciroclo ermeneutico che dischiude i tesori del testo sacro è per l’appunto il Kahal, la comunità. L’esperienza del divino non va vissuta in solitudine ma deve incontrare la comunità. Per noi cristiani l’incontro con gli ebrei oggi non è più un optional. Dobbiamo superare una volta per tutte gli abissali equivoci provocati dalla teologia della sostituzione, quella che evocò il demoniaco nel giudaismo nei secoli passati del cristianesimo. Come dimenticare che la Shoah è stata prodotta da un popolo di battezzati? Non a caso il dialogo parte dopo Auschwitz. Per noi oggi, l’unico modello possibile è quello della complementarietà perchè Gesù ebreo chiede di essere compreso con le categorie dell’ebraismo e del Patto».
2 -(continua)