Il patto col diavolo, ma a quale prezzo?

Mondo

di Aldo Baquis

Emiro e HanyehScendere a patti col Diavolo: è sano pragmatismo, o pura follia? Le scelte sono sempre difficili, anche perché per conoscerne la risposta occorre prendersi una prospettiva di anni. Un lusso davvero sfrenato per i dirigenti politici di un Paese come Israele che in ogni momento rischiano di vedersi sottoposti al giudizio dell’elettorato. Basta citare ad esempio il povero Amir Peretz, catapultato da Ehud Olmert da leader sindacale alla carica di ministro della difesa e poi sbeffeggiato crudelmente perché in una esercitazione militare aveva inforcato un cannocchiale senza rimuovere i tappi di plastica alle estremità. Solo a distanza di anni gli israeliani si sarebbero sentiti in dovere di chiedergli scusa. Perché era stato proprio lui – il ministro della difesa digiuno di cose militari – ad insistere per la produzione delle batterie di difesa Iron Dome che nella estate 2014 protessero gli abitanti delle città del Neghev dai razzi di Hamas sparati da Gaza. Dunque al termine di un’estate dominata da voci ricorrenti su contatti sommersi fra Israele e Hamas per una tregua di lunga durata bisogna cercare di immedesimarsi con chi esprimerà giudizi in merito fra alcuni anni.

Che fare con i dirigenti della Striscia: dare loro ossigeno (e consentire dunque che mettano radici ancora più profonde), oppure stringere la morsa nella speranza che siano sommersi un giorno da un’ondata di collera popolare? Nei mesi estivi si è fatto un gran parlare di contatti mediati da Turchia e Qatar, con la partecipazione di Tony Blair, per mettere a punto una tregua di lunga durata. A Hamas preme innanzi tutto di rompere il blocco mantenuto sui suoi confini (in misura più o meno rigida) da Israele e dall’Egitto. Si è studiata l’ipotesi di un porto galleggiante, nella zona di Cipro. Là sarebbero dirette, per essere ispezionate, le imbarcazioni dirette a Gaza o provenienti dalla Striscia. In una fase inziale, sarebbe solo un traffico di merci; in seguito forse anche di persone. In parallelo, tacitamente, Hamas ha anche dato segni di quella che in un’ottica israeliana viene definita “maturità”. Ha allestito una pista lungo la linea di demarcazione di Gaza; ha là disseminato torrette di guardia e approntato pattugliamenti. Ai palestinesi ha detto che il tutto era in funzione anti-israeliana. Ma ad Israele è parso invece di capire che tanto spiegamento di forze aveva anche lo scopo di impedire lanci di razzi sul Neghev da parte degli estremisti salafiti. Nell’immediato Israele e Hamas hanno anche preso atto di avere, oltre alla calma, un altro interesse comune: lo scambio di prigionieri. Hamas detiene i resti di due militari caduti nella Striscia nell’estate 2014, nonché un israeliano di origine etiope e un beduino, entrati a Gaza per vie traverse e per ragioni ignote. Attraverso Blair e gli emissari del Qatar Israele ha anche ventilato ai dirigenti di Gaza che – se contribuissero a calmare le acque – in futuro potrebbero beneficiare dei giacimenti di gas naturale israeliani. In caso di accordo, il Qatar finanzierebbe le tubature necessarie. Ma al termine dell’estate è apparso che questi contatti, questi sforzi volonterosi, non hanno preso quota. Anche perché c’è Hamas e c’è Hamas. Da un lato c’è l’ala pragmatica (in merito si fanno i nomi di Ghazi Hammad e di Mussa Abu Marzuk), ma c’è anche l’ala radicale, di Mahmud al-Zahar e del braccio armato della organizzazione, Brigate Ezzedin al-Qassam. Il leader politico, Khaled Meshal, che risiede nel Qatar, sarebbe per la linea morbida. Ma a volta è trascinato su posizioni radicali. E quando si dice “posizioni radicali” si dice la corrente filoiraniana che vede nella lotta ad oltranza contro Israele la raison d’etre del movimento. Sono appunto le forze che hanno provveduto a ricostruire i tunnel e i bunker di Gaza, piuttosto che ricostruire gli edifici danneggiati dalla guerra; che di continuo sparano razzi in mare per verificare la loro accresciuta gittata, dopo aver colpito un anno fa perfino la periferia di Haifa. Sono quelli che ormai progettano non più piccole infiltrazioni di commando in terreno nemico, ma vere operazioni militari come l’occupazione di un fortino israeliano. Sono quelli che hanno trascorso l’estate ad insegnare la lotta armata ai bambini e alle bambine della Striscia.

Da un lato, la tentazione israeliana di dare loro ossigeno è forte anche perché il premier Benyamin Netanyahu non sembra credere – almeno nella sostanza, almeno al momento attuale – alla formula dei Due Stati. E allora il rafforzamento di Hamas equivale ad un indebolimento politico di Abu Mazen. Ma è saggio lanciare una ciambella di salvataggio a Hamas, quando quel movimento è riuscito negli ultimi mesi a litigare con tutti: compreso l’Egitto e compresa l’Anp palestinese? Mentre Israele soppesa il da farsi, gli eventi incalzano e il terreno scotta. Da Gaza Hamas cerca infatti di accendere le micce di una rivolta religiosa a Gerusalemme, in particolare nella Moschea al-Aqsa. I suoi mass media non perdono occasione per denunciare le “provocazioni” di estremisti ebrei il cui fine – sostengono – è di scatenare una guerra di religione. Ad al-Aqsa, ormai trasformata in un’area di scontro, ultrà islamici armati di sassi, bottiglie molotov e fuochi di artificio sparati ad altezza d’uomo, attaccano con sempre maggiore frequenza gli agenti israeliani. Combattono così la “occupazione” e al tempo stesso mettono in difficoltà i loro rivali politici immediati: i leader ritenuti “pragmatici” come il palestinese Abu Mazen e il monarca giordano Abdallah.
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