di Vittorio Robiati Bendaud
Negli ultimi decenni sono apparsi alcuni scritti importanti su Gesù, scritti da ebrei. Come non ricordare il saggio di Rav Leo Baeck Il Vangelo: un documento ebraico, pubblicato in italiano da Giuntina, o quello di David Flusser, Jesus, che ha segnato un’epoca e che, oltreché in italiano (Morcelliana), è stato tradotto in moltissime lingue? E ancora, recentemente, il libro del rabbino Boteah, Kosher Jesus, che è divenuto un caso letterario. Ebbene, il libro di Miro Silvera Io Yeoshua chiamato Gesù, edito per i tipi di et al. edizioni, si distacca da questa prospettiva in maniera sorprendente. Non si tratta di un saggio, genere letterario frequentato solo da alcuni lettori, ma di un racconto, di una biografia spirituale sussurrata con discrezione e familiarità, quasi in punta di piedi. È con grande delicatezza lessicale che Silvera traccia le linee della normalità ebraica del ragazzo Yeoshua che poi, diventato adulto, frequenterà i circoli Esseni. E chissà, si chiede Silvera, se davvero Yeoshua abbia mai pensato di diventare ciò che poi la storia e le circostanze hanno fatto di lui. Perchè, sostiene Silvera, in fondo Yeoshua visse, pensò e si interrogò sui tempi dentro cui era immerso, esattamente come un ebreo della sua epoca.
Nato ad Aleppo, arrivato a Milano da piccolo, Silvera proviene da un’antica famiglia di ebrei italiani di origine portoghese. Con questo romanzo su Gesù tiene a precisare che non ha voluto dar vita a nulla di “scientifico” quanto a una fiction, seppure sulla base delle acquisizioni della più recente storiografia. Sposando l’opinione del critico letterario Harold Bloom, ha fatto di Gesù un personaggio letterario, restituendogli la forte ebraicità -ivi compresa quella quotidiana dei piccoli gesti, dei momenti di giocosità, della gente comune-, ripercorrendo molte storie della letteratura apocrifa.
“L’idea di questo romanzo è nata alcuni anni fa”, racconta Silvera “quando l’amico e regista Alessandro D’Alatri mi chiese di scrivere la sceneggiatura del film I giardini dell’Eden, sapendo del mio antico interesse per Gesù”.
Fu quella l’occasione -nonchè la prima versione del romanzo-, scritta a quattro mani a Roma. Il tentativo è stato quello di restitituire alla sua figura l’originalità visionaria, il vissuto ebraico, le passioni umane. Il film venne presentato in Vaticano e piacque a sua Santità Papa Giovanni Paolo II -di cui Miro ricorda lo sguardo intenso e penetrante-. Successivamente il film venne acquistato dalla RAI che non l’ha mai mandata in onda, a differenza delle reti Fininvest su cui è stato più volte trasmesso.
Insomma è possibile raccontare Gesù oltre la Chiesa e senza il suo copyright?
“Questo è stato uno degli obiettivi fondamentali. Per i primi cristiani, il simbolo della loro identità religiosa era il pesce, un simbolo di vita. Solo dopo gli è stata sostituita la croce, che è invece un patibolo, qualcosa che ha a che fare con la morte. E ancora oggi a volte mi stupisco di come si possa adottare come proprio simbolo identitario un uomo in agonia”.
Hai discusso con altri ebrei circa l’ebraicità di Gesù?
“Mi sono sentito sempre solo. È inevitabile che la figura di Gesù faccia paura a molti ebrei e rabbini. In nome di Gesù siamo stati massacrati e l’ebraismo umiliato e deriso. È difficile, ad eccezione forse di alcuni circoli di intellettuali e di alcune personalità religiose illuminate, parlare liberamente di Gesù nel mondo ebraico: il peso di quasi venti secoli di antigiudaismo cristiano incide troppo. È emblematico il caso del rabbino ortodosso Boteah che, in seguito al suo scritto Kosher Jesus, è stato scomunicato da due corti rabbiniche! Ma la verità è che, piaccia o meno, Gesù è un personaggio fondamentale della storia umana e, anche se purtroppo con esiti tragici, della storia ebraica. Si tratta di uno degli ebrei che più hanno inciso nella coscienza dell’umanità. Gesù è una sorta di specchio ustorio: ti ci rifletti, ti ci vedi riflesso, partono molte domande e la capacità di rifrazione è fortissima”.
Eppure il mondo ebraico di rado si è occupato di questa figura. Che ne pensi?
“Che la storia passata è troppo vicina a noi. Oggi comunque abbiamo l’opportunità storica di ripensare ebraicamente una figura importantissima e di rifletterci, senza veli e senza pregiudizi. Un’occasione che non deve andare sprecata”.
Perchè che nel mondo ebraico spesso prevale la necessità della scrittura, del raccontarsi?
“Gli ebrei scrivono solo da poco più di cento anni, prima era per loro impossibile. Era una delle tante libertà negateci dal mondo cristiano”.
Qual è la tua opinione sullo stato di salute della letteratura in Italia?
“I critici italiani sono latitanti e non fanno sentire la loro voce. Il risultato è l’eccessiva omologazione”
E la letteratura israeliana?
“Israele ha una stagione letteraria entusiasmante e densissima. Non ne sono però un lettore assiduo. È qualcosa che avverto come troppo vicino e simile a me. Quando leggo, preferisco scoprire mondi che ignoro, o comunque distanti”.