di Daniel Sibony
Parla Daniel Sibony, saggista e psicanalista
La Diaspora del popolo ebraico ha un senso? La domanda, in sé, non vuole dire molto perché la Diaspora esiste dall’epoca di Mosè: da quando una delle tribù si è trovata bene nelle pianure dall’altro lato della Terra Promessa e ha chiesto, molto semplicemente, di restarci, promettendo di mandare degli uomini ad aiutare gli altri a conquistare la suddetta terra. C’era già dunque questa idea: se stiamo bene dove siamo, ci sistemiamo e lì prosperiamo, aiutando al contempo a costruire lo Stato ebraico. Inoltre, è molto probabile che anche prima della distruzione del Tempio, alcuni ebrei, non trovandosi a proprio agio nella furibonda rivalità fra i poteri corrotti e i profeti, siano andati a vivere altrove.
Ma con il sionismo e la creazione dello Stato di Israele si è diffusa l’idea che la Diaspora non aveva più senso, che bisognava “tornare a casa”. Si è poi capito che la cosa era ben più complessa di quanto si pensasse, che Israele era un rifugio per alcuni, ma che rendeva più difficile la vita agli altri nella Diaspora, i quali si sentivano interpellati e accusati per tutte le azioni dello Stato ebraico – che fortunatamente non è perfetto, se no sarebbe già morto (dato che la perfezione è mortale).
Inoltre, alcuni scoprono che gli israeliani sono degli ebrei molto particolari anche nella loro diversità, che ad esempio manca loro la dimensione dell’esilio, faglia esistenziale intrinseca al popolo ebraico. Resta il fatto che tutti gli ebrei del mondo sperano il meglio per Israele, ma molti capiscono che l’establishment israeliano lavora soprattutto per se stesso, per i suoi interessi, per quelli della sua grande comunità, cosa del tutto normale (tranne per coloro che lo “idealizzano”). Ne deducono così che loro devono vivere al meglio là dove sono, mantenendo i legami con la trasmissione dell’idea ebraica, quella del Libro e del pensiero. La maggior parte di loro aiuta lo Stato ebraico quando può, ma in molti hanno capito che tra i partiti religiosi israeliani, la destra, la sinistra, il centro e gli estremi, il tutto immerso in una “onorevole” corruzione, devono impegnarsi a capire come esistere in quanto ebrei e fare fiorire l’eredità spirituale, capendo quindi l’importanza di un lascito: fare esistere il popolo ebraico come trasmissione simbolica, ovunque esso si trovi.
Molti ebrei della diaspora traducono il proprio essere ebrei nel sostegno a Israele: un supporto, questo, che presenta spesso dei lati inaspettati. Così, molti sono quelli che hanno voluto comprare lì un appartamento: cosa che ha fatto salire i prezzi dell’immobiliare a dei livelli incredibili, rendendo più difficile per le giovani coppie israeliane (e anche per quelle vecchie), acquistare un alloggio. Un effetto collaterale, un esempio come un altro di un certo scarto tra le due anime, quella israeliana e quella diasporica. In sintesi: c’è un certo via-vai fra Israele e la Diaspora, che crea dinamismo e movimento e che può confermare la mia interpretazione del sogno biblico di Giacobbe: egli vede una scala, che collega la terra al cielo, e ci sono dei messaggeri divini che salgono e scendono, degli Olim e degli Yordim. Questo sogno sulla scala d’Israel (l’altro nome di Giacobbe) esprime forse che la cosa essenziale è il passaggio, l’andata-e-ritorno. E gli ebrei non si chiamano forse in ebraico “coloro che passano”, “ivrim”?
È una cosa buona che lo Stato ebraico esista anche se non è sempre in buone mani. Ma davvero esistono delle “buone mani”? Allo stesso tempo, l’idea che se nelle difficoltà gli ebrei di tutto il mondo possano sempre trasferirsi in Israele è una falsa idea. Perché se la vita degli ebrei nel resto del mondo è impossibile, lo sarà anche nel bastione ebraico diventato ghetto. Speriamo che questo non accada mai.
www.danielsibony.com. Trad. I. Myr