“Ciao bella bambina ariana”…ma io ero ebrea

Opinioni

di Silvia Vegetti Finzi

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Nessuno – dice Pascal – muore così povero
da non lasciare nulla in eredità”.
Ciò vale anche per i ricordi –
solo che essi non sempre trovano un erede.

W. Benjamin

“Come si chiama bella bambina?” chiede l’ufficiale nazista a mia mamma, chinandosi per accarezzarmi i riccetti biondi e scarruffati. Ho cinque anni e mezzo e stiamo viaggiando da Brescia a Manerbio, un paese vicino, su un treno buio, gelido e fracassone, con i sedili sbrindellati e le porte interne che non si chiudono. Ma nessuno ricorda le comodità di un tempo. Tanto meno i bambini che non le hanno mai conosciute. Siamo in aprile, il “più crudele dei mesi” e l’inverno, come la guerra, sembra non voler finire.

Mia madre, preoccupata che quella bambina sventata abbia dimenticato la consegna – non a caso ero soprannominata “mademoiselle la gaffe” – m’invita a “rispondere bene “ e io, con gli occhi sgranati per una paura che non so, pronuncio in fretta una frase che rimarrà negli annali di famiglia: “Lei dice che mi chiamo Rosina Ruchinger”. La nuova identità è recente. Fino a qualche giorno prima avrei risposto: “Silvia Finzi”, ma da quando la Repubblica di Salò ha inasprito le persecuzioni contro gli Ebrei, compresi i “misti”, quel cognome è diventato impronunciabile. Suona come un’imputazione, anzi come una condanna a morte. Ma questo lo saprò dopo, molti anni dopo. Il puzzle della vita si compone lentamente e solo alla fine se ne scorge il disegno complessivo.

Invece, durante l’occupazione tedesca il cognome Ruchinger, di ascendenza cattolica, costituisce una sorta di lasciapassare. Viene portato in Italia da Monaco di Baviera dal bisnonno materno, un medico così innamorato del nostro Paese da stabilirsi nel mantovano dopo la battaglia di Custoza, dove aveva combattuto contro gli Austriaci. Nominato medico condotto, esercitava, forse a Viadana, quella che veniva considerata, con commiserazione venata d’ironia: “Arte sì misera, arte sì rotta, non v’è che il medico che va in condotta”. Di lui si ricorda la passione per l’Inghilterra, trasmessa nel nome dei tre figli: Enrico, che sarebbe diventato mio nonno, Edoardo e Adelaide. Nonostante la miseria dell’arte, possedeva un cavallo, un calesse e un servo. Quest’ultimo doveva essere uno stalliere assai maldestro se il cavallo gli staccò il naso con un morso. Ma l’appendice, così si narra, venne tempestivamente riattaccata con ago e filo dall’abile medico, improvvisatosi sarto per l’emergenza.

Sventura volle che, quando i suoi bambini erano ancora piccoli, il “dottore tedesco”, dagli inconfondibili capelli rossi, venisse inghiottito, con cavallo e calesse, da una piena del Po, mentre tentava di raggiungere in fretta e furia una partoriente. La vedova, rimasta sola a crescere i figli con un’esigua pensione, fu costretta a rimpiangere la miseria dell’arte medica quando in casa entrò quella vera: l’arte di mettere insieme il pranzo con la cena. Ideò allora uno stratagemma: recuperò il servizio di nozze, riservato alle grandi occasioni, e utilizzò i piatti di porcellana bavarese, decorati con fiori di vivaci colori, per “pucciare” la polenta in un sugo virtuale. Si narra che i ragazzi riuscissero a condire, almeno con la fantasia, quel monotono alimento.

Tornando al treno che sferragliava verso Brescia, l’ostico cognome Ruchinger portava con sé quelle scene lontane, spezzoni di una memoria familiare dispersa: il tempo corre veloce e il passato sbiadisce in fretta. Il nome Rosina era tratto invece dall’abbecedario di mia nonna Liberata Bendoni, la moglie di nonno Enrico, una signora d’altri tempi, educata in casa dall’istitutrice, secondo costumi ottocenteschi. Un volume favoloso se confrontato alle autarchiche pubblicazioni del tempo di guerra: di cartone spesso un po’ ingiallito, illustrato con disegni in bianco e nero, così belli che ora li metteremmo in cornice. L’identificazione con la figura della contadinella Rosina, di cui si presumeva un roseo incarnato, mi era stato affibbiata per due ragioni: perché avevo le gote rosse e perché Rosina era una guardiana di oche, il che lasciava supporre che lei stessa un po’ oca lo fosse. D’altra parte in quegli anni tutte le bambine erano considerate ochette, anche quelle un po’ cresciute, e tutti i maschi monelli. Gli adulti, che avevano ben altro cui pensare, i bambini non li vedevano neppure e, per comodità, ricorrevano a un consunto repertorio di pregiudizi.

A quanto pare il mio improbabile pseudonimo aveva funzionato, visto che il cortese ufficiale aveva esclamato: “Questa sì essere bella bambina ariana!”. La stentata sintassi è d’obbligo per dar l’idea del crucco credulone, sempre disposto a farsi imbrogliare dallo scaltro italiano. L’aneddoto potrebbe far sorridere se non fosse che proprio in quei giorni, forse in quello stesso giorno, il 5 aprile del ’44, Ida Finzi, la giovane sorella di mio padre, era stata spinta a forza in un vagone piombato e deportata, col padre, ad Auschwitz. Finita la guerra, ereditai da lei una bicicletta da corsa e un portatovagliolo d’argento con inciso il suo semplice nome. E nessun racconto.

Più tardi seppi che, il giorno precedente a quello in cui fu deportata, si era presentata spontaneamente alla Casa di riposo israelitica di Mantova per stare vicina al padre, che vi era detenuto dal primo dicembre. Una scelta dettata dalla solitudine e dall’affetto su cui si stavano addensando le nuvole minacciose del conflitto più spaventoso che la storia abbia mai conosciuto.

Ida, rimasta orfana di madre, si recava spesso a Venezia, ospite della zia e là si trovava quando era giunta la notizia che gli Ebrei mantovani sarebbero stati deportati nei giorni seguenti. Preoccupata per la sorte del padre, aveva preso il primo treno disponibile per raggiungerlo e avvertirlo di quanto stava per accadere. Nelle stesse ore il fratello Renzo viaggiava in senso contrario per indurla a rimanere a Venezia. Il chiasma dei loro spostamenti sarebbe stato per lei decisivo.

Sappiamo infatti che quando Ida era arrivata a casa non aveva trovato nessuno ad attenderla. Spaventata, era corsa dalla cameriera di famiglia, che abitava in un paese vicino, ma questa, temendo di essere coinvolta nella retata, l’aveva scacciata in malo modo chiudendole la porta in faccia. Non sapendo che fare, Ida si era allora recata all’ospizio ove era detenuto il padre, consegnandosi spontaneamente alle guardie. In realtà non ci sarebbe stato alcun bisogno di raggiungerlo perché, per l’età tarda e i malanni che lo affliggevano, era da poco giunto l’ordine di rilasciarlo. Ma, nel frattempo, si era fatto tardi e, per non affrontare il buio imposto dal coprifuoco, il vecchio Finzi, frastornato da eventi che non riusciva a comprendere, aveva deciso che, con la figlia, si sarebbe trattenuto nell’ospizio per una notte ancora. Nel pomeriggio si era recato dal barbiere per “mettersi in ordine”. Ci teneva al suo aspetto e non immaginava che, chiedendo come al solito “barba e capelli”, si stava preparando per l’ultimo viaggio. Quando il mattino successivo padre e figlia, fatti i bagagli, si accingevano a rientrare a casa, il loro tempo stava ormai per scadere. Nel concitato trasferimento dei prigionieri alla stazione, nessuno aveva voluto prendere in considerazione quell’insolito ordine di scarcerazione. Nel disinteresse generale erano stati spinti con gli altri dentro il convoglio blindato che li attendeva minaccioso su un binario secondario; i portoni scorrevoli freneticamente chiusi e sigillati, e già Mantova si allontanava all’orizzonte.

Con l’indifferenza che la sorte riserva a chi vuol perdere, era inesorabilmente scoccata, sul quadrante della loro vita, “l’ora di tutti”. Il vecchio padre, considerato dalle SS un inutile fardello, sarebbe stato ucciso cinque giorni dopo il suo arrivo nel campo di sterminio, mentre la figlia vi sarebbe morta, forse per tifo, alla fine dell’anno. Qualcuno, dei pochi che dall’inferno di Auschwitz fecero ritorno, ha raccontato che, durante il tragitto, Ida aveva trovato l’amore. Peccato che, “come tutte le più belle cose, durò solo un giorno. Come le rose”. 1

Come scrive Rossana Rossanda: “ Questa non è una storia ma quel che resta della mia memoria”.