di Fiona Diwan
Che cosa significa trasmettere?, si chiede, alla vigilia di Pesach, Catherine Chalier, filosofa e maitre-a-penser, allieva di Emmanuel Levinas, oggi docente all’Università Paris-Nanterre e autrice di numerosi saggi (usciti per Giuntina). «Trasmettere significa dare a colui che ascolta il senso che lui è importante per noi. Le parole di trasmissione servono a costruire la fiducia, e questo vale sia per il bambino che per l’adulto. Col racconto di Pesach e della Haggadà, noi trasmettiamo parole abitate dalle nostre stesse emozioni, un racconto pieno di taam, sapore, che risuona di un nigun personale, capace di risvegliare nell’altro una melodia segreta e interiore, qualcosa di molto lontano dalla fredda e razionale erudizione. Nella Torà, ritualità e racconto sono inscindibili, ed è la narrazione a rianimare la parola dell’origine. Narrare è una mitzvà, specie a Pesach: se non vivo interiormente ciò che cerco di trasmettere, il racconto si sclerotizza e perde di senso». Catherine Chalier fa notare quanto in ebraico i due termini kodem e kadima, prima e avanti, pur essendo opposti, abbiano la stessa radice kdm: come per dirci che solo guardando indietro si può guardare avanti, e che è l’anteriorità che fonda il futuro, due dimensioni inseparabili. Ma attenzione: l’atto di trasmettere ai figli non coincide affatto con il gesto di informare; guai a dire “io li informo, gli spiego cos’è l’ebraismo e poi sceglieranno loro da grandi”. Privata dell’interiorità e del taam, qualsiasi trasmissione è destinata a fallire, incapace di risvegliare il nigun, quella melodia segreta che crea il legame tra le generazioni. «Una trasmissione viva è tremendamente esigente, ed è incompatibile con la bruscheria e l’impazienza, con l’idea di arrivare velocemente all’essenziale, contro l’illusione contemporanea dei tre minuti per dire tutto. Ecco perché il gesto dell’ascolto è così importante, a dispetto del rumore generale nel quale siamo immersi. Dobbiamo saper ascoltare: ma che cosa? Le parole antiche. Nel Deuteronomio è scritto: “Se ascolti, ascolterai anche la voce dell’Eterno”. Aggiunge Rabbì Chaninà, nel trattato di Berachot che “solo un vaso già pieno può trattenere ciò che via via ci mettiamo; un vaso vuoto produrrà solo un’eco di vuoto e lascerà risuonare nel nulla ciò che vi mettiamo”. Le parole antiche e le parole nuove sono inseparabili; ma a patto che si produca un chiddush, un rinnovamento del senso. L’atto di mettersi in ascolto implica una certa nudità, implica il fatto di non mettere mai il proprio IO davanti: è far fare una cura dimagrante al nostro IO, come diceva Levinas. La qual cosa vale specialmente per Pesach, periodo in cui dobbiamo inibire la lievitazione, ricondurci verso l’essenzialità e l’ascolto, sorvegliare i nostri moti di collera, di rabbia, di alterazione, e l’eccessività, per poter connetterci al significato interiore del racconto di liberazione. Il Rabbi di Gur, nello Sfat Emet (La lingua di verità), ci dice che l’esilio più profondo è quello che ignoriamo. In Egitto è la parola stessa che è in esilio e lo è ogni volta che siamo nel metzer, nella disperazione. Non a caso, Metzer e Mitzraim in ebraico, sono due parole molto simili. Nel Faraone non c’è lacerazione e senza ferita o strappo la parola non può passare. Il Faraone è colui che nega l’interiorità, è bidimensionale, privo di una dimensione interiore consapevole. Nel testo di Shemot, l’Esodo, gli ebrei gridano: ed è dal silenzio del metzer (la disperazione che ci ammutolisce), che si avvia la prima tappa di liberazione della parola, ovvero il grido. Col gesto di gridare, qualcosa si lacera e si libera nell’anima dello schiavo, smette di accettare la casa di schiavitù e inizia a volerne uscire, sente per la prima volta la nostalgia della parola creatrice. La seconda tappa sono le domande: il mare che si apre, lo Iam HaSuf deve poter spalancarsi anche dentro di noi e accogliere le domande, è nella nostra profondità interiore che si deve produrre l’apertura delle acque del mare per lasciar passare la parola viva che si era sclerotizzata in Egitto: e così, lasciar morire in noi, le nostre sofferenze, le nostre alienazioni, per cessare di aggrapparci a loro. Ecco perché dobbiamo leggere la Haggadà sempre come se fosse per la prima volta. Terza e ultima tappa: il gesto del canto, la Shirà. È scritto che Mosè canterà, al futuro, un inno alla speranza in una liberazione vera. Ma attenzione: con Mosè non canterà solo il profeta o il singolo ebreo, non canterà solo Am Israel, ma il mondo intero. Perché Pesach è un paradigma, un canto universale di liberazione, capace di risuonare nell’anima di ciascun essere umano».