Il peso e il valore della Libertà

Opinioni

di Rav Prof. Giuseppe Laras

giuseppe_larasB’’H

Vi è una parola, particolarmente cara alla tradizione ebraica, che sintetizza e veicola l’afflato spirituale e intellettuale più elevato e più intimo di Israele e che ne ha forgiato, per così dire, il carattere. Si tratta della parola “libertà”.

La “libertà” è uno dei cardini della teologia, della morale e dell’antropologia ebraica di ogni epoca.

A questa parola si accompagnano indissolubilmente le parole “responsabilità”, “autocritica”, “realismo”. Mi rendo conto che si tratta di un lessico contemporaneo. Tuttavia, questo apparente anacronismo lessicale ha un suo potenziale valore euristico, che spero di riuscire, almeno in parte, a restituire.

In relazione al rapporto “libertà-responsabilità”, la Torah, nell’originale ebraico, impiega due lemmi diversi per indicare la libertà. Sinché Israele è schiavo di faraone in Egitto e il problema è, dunque, fuggire dall’Egitto, viene utilizzato il termine “chòfesh”, che potremmo tradurre con “libertà da”. È la libertà fisica-materiale, la negazione della schiavitù, dell’asservimento e dell’abbrutimento. È l’evoluzione della libertà di movimento, la prima esperita dagli esseri umani. Quando, invece, Israele oltrepassa il Mar Rosso e riceve sul Monte Sinài la Torah, l’insegnamento divino, la Bibbia impiega il termine “cherùth”, ossia “libertà di”. Si tratta della libertà di scelta, di scegliere la cosa giusta al momento giusto, di sentirsi vincolati alle proprie scelte. Una difficile libertà, insomma, che si declina in responsabilità.

È molto significativo che la Bibbia preveda prima l’acquisizione della “libertà da” e poi quella della “libertà di”, fuggendo da spiritualismi e radicandosi così nella concretezza corporea e materiale (ecco un primo riferimento al “realismo” biblico). Non si può essere davvero liberi fino in fondo, e dunque pienamente responsabili -cioè realizzati-, sinché si è schiavi. Non si cessa mai di essere schiavi fino a che non si vuole diventare “responsabili”.

A tale riguardo, vorrei ricordare che questi insegnamenti biblici, seppur diversamente declinati e recepiti lungo una storia affatto contraddittoria e sofferta, sono ampiamente alla base, anche in foro pubblico e laico, degli attuali valori occidentali inerenti la libertà –e le libertà-, in ambito filosofico, giuridico e politico. Basti pensare alla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. Purtroppo –ed è drammatico circa il presente ed estremamente insidioso circa il nostro futuro- la radice biblica di tutto ciò è abbondantemente negata o, se riconosciuta, relegata a marginale questione “archeologica” del diritto e della morale. È, per inciso, da sottolinearsi, per fotografare la gravità della situazione, che questo accade nel generale silenzio di intellettuali e figure pubbliche di ebraismo e cristianesimo, che spesso debolmente non la rivendicano. Il riconoscimento di questa vivente radice biblica, così intima anche nei suoi sviluppi più lontani e forse paradossali, inoltre infastidisce molti. Per il marxismo ortodosso, infatti, i diritti umani furono per decenni, in epoca non troppo lontana dalla nostra, un qualcosa volto a coprire un sistema di “dominazione” (e noi non abbiamo ancora fatto per nulla i conti con i disastri intellettuali, teologici e morali che pseudo-pensieri derivanti dalla volgarizzazione e banalizzazione di idee afferenti al mondo del marxismo, ortodosso e non, oggi sdegnosamente imperanti -quali buonismo, pauperismo, emotivismo, terzomondismo e pacifismo- hanno creato, quando mescolati a discorsi religiosi o, peggio, allo strutturarsi dell’identità religiosa). Non è un caso poi che, per motivi teologico-politici, di tutt’altro ordine, questa celeberrima Dichiarazione purtroppo non sia sottoscritta dalla maggioranza dei Paesi Islamici, specie per quanto riguarda le libertà personali, dato che questi Paesi ne hanno stilata invece una islamica parallela, assai differente per impianto e contenuti.

Circa il rapporto tra “libertà ed autocritica”, vorrei ricordare che la Bibbia, scritta in ebraico da ebrei -e anzitutto rivolta agli ebrei-, è il più formidabile e ognora attuale riferimento per l’analisi interiore, l’autocritica e la teshuvah che l’ebraismo possegga. E paradossalmente questo nel corso dei secoli fu fatto con abbondanza valere da antisemiti e detrattori. Quello che però è fondamentale e prezioso è che l’autocritica, espressione e corollario della libertà, affondi nella Scrittura stessa. E la teologia si fa antropologia e quindi società, cultura e civiltà. E anche questo spesso sfugge abbondantemente a molti intellettuali in relazione al fatto che le religioni costruiscono civiltà e culture differenti con il differire della religione, così come differente, ove possibile, è il dialogo che una civiltà può immaginare, coltivare, promuovere o sognare tra le religioni.

La tematica della “libertà e dell’autocritica” in seno alle religioni riguarda anche il fatto, oggi tristemente di attualità e legato all’autocoscienza di molti credenti –e dunque a una delicatissima questione antropologica e, potenzialmente, politica- di poter denunziare errori in seno alla propria tradizione religiosa e alla pratica, senza per questo svilirla o ritenerla erronea.

È troppo facile –ed estremamente insidioso, poiché rende impossibile ogni miglioramento- espungere il male da sé, ritenendo che i fedeli che sostengono talune dottrine o che manifestano taluni altri comportamenti, specie se sanguinari, non abbiano nulla a che spartire con la fede di appartenenza.

Nello specifico, considerata l’attualità, molti intellettuali, uomini di fede e politici sostengono che il problema non è l’Islàm, ma il terrorismo. È come dire che il cristianesimo non è l’antisemitismo o l’antigiudaismo. Certo! Tuttavia è innegabile che l’antisemitismo e l’antigiudaismo sono stati problemi profondi propri del cristianesimo (e non solo). La violenza e il fanatismo, la sottomissione religiosa e il terrore non esauriscono l’Islàm, che è stato anche ben altra cosa, ma sono un problema religioso che in qualche modo riguarda interiormente l’Islàm. L’autocritica dell’Islàm (assieme, ed è questo il punto più dolente e sconvolgente, alla critica laica esterna) su questo punto sembra difettare. Poche sono le voci al riguardo, spesso ridotte al silenzio o facilmente discreditate da élites radical-chic, che vanno dal giornalista egiziano Ibrahim Eissa alla controversa ma efficace studiosa somala Ayaan Hirsi Ali.

Le religioni – tutte le religioni – possono essere causa di guerre, di violenze e nei loro insegnamenti albergare forze distruttive. La melassa buonista sulle religioni è falsa e pericolosa  – ribadisco, pericolosa!, nonostante oggi abbondi, specie in molti ambienti religiosi -, tanto quanto l’avversione ideologica ad esse, che le riduce al “grande male del mondo”. Non è vero che è solo l’economia a causare guerre e barbarie: le religioni, al pari dell’ateismo e di un certo illuminismo (purtroppo quest’ultimo troppe poche volte messo seriamente e adeguatamente sotto serena e costruttiva indagine), sono esperte in materia.

Questo, nel rapporto tra ebrei, cristiani e musulmani, proprio al fine di costruire un’“antropologia di pace”, dovrebbe essere riconosciuto. A cominciare dall’ammissione dell’effettivo discredito reciproco. Nel caso del cristianesimo si è spesso trattato di problemi interpretativi, con l’Islàm il problema dimora già nel testo sacro stesso.

Per saggiare, in onestà e con spirito costruttivo, l’enorme difficoltà della questione circa il rapporto dei tre monoteismi tra loro, ecco questi due esempi.

“Non ha forse contribuito la presentazione dei giudei e del popolo ebraico, nello stesso Nuovo Testamento (nel testo sacro quindi), a creare una ostilità nei confronti di questo popolo, che ha favorito l’ideologia di coloro che volevano sopprimerlo?”

Chi scriveva quanto appena riportato non era un ebreo, ma l’allora Card. Joseph Ratzinger nel Documento della Pontificia Commissione Biblica “il Popolo Ebraico e le sue Sacre Scritture”. Un’ammissione di responsabilità e un lavoro eccezionale e tenace, tra alti e bassi, di cambiamento di rotta che ha contraddistinto e ancora contraddistingue la Chiesa Cattolica da Nostra Aetate. La forza e la dignità straordinarie dell’auto-critica.

In alcune Sure del Qur’àn, quindi nel testo sacro (così come nella giurisprudenza islamica successiva che ha previsto i Dhimmi), gli ebrei hanno alterato la Rivelazione divina (e il dibattito tra i giuristi-teologi musulmani è se gli ebrei abbiano interpretato male la Bibbia oppure se abbiano trasmesso male il testo o, ancora, se abbiano sia trasmesso male il testo sia interpretato male lo stesso), mentre i cristiani hanno pratiche cultuali, oltre a condividere con i primi una Rivelazione alterata, dal sapore idolatrico.

Per un qualsiasi credibile percorso di dialogo e di pacificazione è necessario apprezzare positivamente, in una prospettiva teologica, e quindi conseguentemente antropologica, gli altri due monoteismi, se possibile. Altrimenti si tratta di infingimenti tranquillizzanti che non vogliono assumere seriamente il problema.

In estrema sintesi, per il cristianesimo riscoprire un apprezzamento teologico dell’ebraismo è stato possibile dato che quest’ultimo è la sua radice, e quindi, conseguentemente, il rapporto tra le due religioni, è da entrambe le parti, con rispettive difficoltà, più semplice. Questo è a suo modo paradossale rispetto alla storia drammatica plurisecolare vissuta dagli ebrei nei territori cristiani. Sempre in relazione al cristianesimo, il rapporto tra cristianesimo (cattolico in particolare) ed Islàm ha iniziato a definirsi via via, dal Concilio Vaticano II in poi.

In relazione all’Islàm, che nelle sue Fonti in vero trova talora espressioni anche positive circa ebrei e cristiani, parzialmente dissonanti da quelle precedentemente citate, sembrerebbe più complicato tuttavia trovare, almeno allo stato attuale, un’ermeneutica delle fonti che vada a correggere le espressioni di discredito che nel corso della storia si sono trasformate nello status di inferiorità politica, religiosa e sociale di ebrei e cristiani, attraverso l’umiliante dhimmitudine (un concetto “religioso” di cittadinanza), che ha avuto periodo anche estremamente acuti, con morti e persecuzioni.

In relazione all’ebraismo, essendo precedente a entrambe le altre due fedi monoteiste, non vi sono ovviamente riferimenti nella Bibbia Ebraica a Cristianesimo e Islàm. Pur tra contraddizioni interne, resistenze, tensioni e difficoltà perduranti ancora oggi, sin dal Medioevo, i più autorevoli Maestri di Israele hanno tuttavia ravvisato un carattere di provvidenzialità, e quindi di positività, nel Cristianesimo e nell’Islàm (Yehudah ha-Levì, Maimonide).

Nella società occidentale (erede del concetto –ormai laicizzatosi ampiamente- di distinzione dei poteri religioso e politico -temporale e spirituale- abbozzato in nuce nelle Scritture ebraiche e cristiane ed elaborato, pur tra infinite e dolorosissime contraddizioni e difficoltà, in seno a queste due Tradizioni religiose), in cui viviamo è unicamente il concetto contemporaneo di cittadinanza politica che ci permette il libero incontro tra diversi, credenti e non credenti, in quanto non gravati, almeno nella sfera pubblica e giuridica, da ipoteche teologiche rispettive.

Un incontro religioso tra noi, nel senso di un trialogo, può iniziare ad avvenire –e deve avvenire- su convergenti necessità etiche, ai fini della tutela e del rispetto di ogni essere umano (il che è anche un compito eminentemente religioso). E ce ne sarebbe d’avanzo. Occorre cioè un dialogo di natura etico-sociale, non teologica –specie considerati i tempi lunghi e le difficoltà propri delle teologie-, per pacificare e abbattere le bellicosità.

Ma torniamo alla libertà e alla Scrittura.

La Creazione del mondo, sin dal Medioevo, per alcuni insigni Maestri di Israele rappresenta l’affermazione per eccellenza della libertà di Dio e, quindi, del creato e dell’essere umano.

L’egiziano Sa‘adyah Gaòn, ad esempio, si diffuse al riguardo, nell’opera fondamentale da lui composta in lingua araba e solo successivamente tradotta in ebraico, il Sèfer ha-Emunòth ve-ha-De’òth, il Libro sulle credenze e le opinioni. Si tratta di un testo rivoluzionario e innovativo, di eccezionale modernità, additante un approccio nuovo alle tematiche teologiche e metafisiche costitutive della fede di Israele.

Egli argomentava l’esistenza del Dio creatore attraverso la composizione (ovvero la molteplicità e l’assenza di semplicità), presente all’interno del mondo. Dato che da Dio -che è uno e semplice- non potrebbe derivare per necessità che un essere unico e semplice, se dall’uno ed unico è invece derivato il molteplice e il composto, ciò può essere avvenuto solo per un atto di volontà e di libertà. La Creazione, quindi, attesta continuamente la libertà del Creatore, è inserita in una costitutiva dimensione di libertà ed è essa stessa libera. Questa argomentazione fu ripresa da Maimonide e, ricorrendo a Maimonide, da Tommaso d’Aquino.

Chiaramente gli accadimenti miracolosi narrati nell’Esodo sono fondamentali, imprescindibili e archetipici per quanto riguarda il pensiero e la teologia ebraici in relazione alla libertà.

In relazione all’idea di essere umano –e dunque di libertà- echeggiano questi noti versetti biblici: “Quando contemplo i cieli, opera delle Tue mani, la luna e le stelle che vi hai collocato, che cosa è l’uomo, perché Tu te ne ricordi? E l’essere umano perché Tu ne tenga conto? Però lo hai fatto di poco inferiore agli esseri divini, coronandolo di onore e di gloria. Lo hai reso dominatore delle opere delle Tue mani, mettendo tutto ai suoi piedi…”

Il passo è tratto dal Salmo VIII e delinea bene l’incerta posizione dell’uomo nel mondo della Creazione: al confine tra onnipotenza e insignificanza. Se lo si osserva in un’ottima molto elevata e profonda, che si spinge oltre la contingenza del finito per intravedere realtà infinite ed eterne, l’uomo in realtà sembra bon poca cosa. È altresì vero che, se lo si osserva da un’angolazione più bassa e particolare, egli appare grande ed importante.

In realtà, il racconto della Creazione già ci presenta l’essere umano in questa duplice veste: signore e dominatore della natura, ma, nello stesso tempo, destinatario di un comando di limite e di obbedienza all’Autore del mondo.

Un antico midràsh afferma che, attraverso l’attributo della libertà elargita all’essere umano, Dio concesse a quest’ultimo ciò che non aveva concesso agli angeli, figure a lui superiori in quanto prive di materia, ma a lui inferiori in quanto prive della facoltà di scelta, e quindi portate ontologicamente a eseguire solo la volontà del loro Creatore.

Al di là della riflessione midrashica, ciò che appare evidente dalla letteralità del testo è che l’apparato del libero arbitrio costituisce l’elemento peculiare dell’essere umano, differenziandolo dalle altre creature, una sorta di marchio di origine esclusivo (tzèlem), che gli partecipa una connotazione unica e indelebile di elevatissima nobiltà. Ma, per poter estrinsecare la facoltà di scelta e di determinazione, è fatale che l’uomo venga posto di fronte a divieti delimitanti. Libertà e comandamento, quest’ultimo piena estrinsecazione e affermazione della prima. Ecco, quindi, l’allegoria del frutto dell’albero della conoscenza e quella dell’espulsione da ‘Eden, da cui traspaiono tutte la problematicità, le aporie e le insidie della nostra libertà.

Affermare la “libertà” –la terribilmente seria libertà, poco consona e affine a slogan o a mode- dell’essere umano –sembrerà paradossale- non è né semplice né scontato. E, al riguardo, il ragionamento razionale può anche legittimamente vacillare e divenire dialettico. Si pensi, solo per un momento, calandoci nella mediocrità, alla società e alla “cultura” de-responsabilizzante in cui viviamo.

La Bibbia, per la prima volta nella storia umana, afferma e sancisce il principio supremo della libertà dell’uomo (e quindi della sua responsabilità) non per ragionamento razionale, ma per Rivelazione.

Questa è la prima grande rivoluzione, non solo teologica ma –evidentemente- anche antropologica, che la Bibbia ha apportato e apporta continuamente all’umanità. Con buona pace di una certa cultura laica e di certi relativismi.

Nonostante le difficoltà e i rischi inerenti all’esercizio della sua libertà, il ruolo dell’essere umano additato da millenni dall’ermeneutica ebraica tradizionale è di socio di Dio nel mantenimento, nell’alimentazione e nel restauro della Sua creazione, stante proprio questa posizione di supremazia che gli si riconosce nella scala degli esseri e delle cose create.

Siffatta prospettiva nella tradizione ebraica non è mai coincisa con un’estraneità o un’alienazione rispetto al resto del creato. Vi è continuità e vi è differenza. (La nostra contemporaneità ha paura delle differenze, invocando in maniera erronea, ideologica e pericolosissima, a diversi livelli, sia culturali sia giuridici, l’eguaglianza, paradossalmente così tradendola. E questo ideologico voler abbattere le differenze sembra oggi talora applicarsi persino al rapporto essere umano-animali).

La differenza è sottile ed è antropologicamente rilevante e fondamentale. La troviamo nel I capitolo della Genesi. L’essere umano, infatti, non è la prima creatura benedetta da Dio. È stato preceduto dai pesci, come si legge in Genesi I,22: “E Dio li benedisse dicendo: prolificate e moltiplicatevi etc.”.

In seguito Dio benedisse l’essere umano, come riferito in Gen. I, 28: “E li benedisse Dio dicendo loro: prolificate e moltiplicatevi etc.”. La differenza sostanziale tra le due benedizioni consiste nel “dicendo loro”. L’uomo non solo è benedetto, ma è stato reso conscio di essere benedetto. È diverso essere benedetti dall’effettivo sapere di essere stati benedetti. Qui la discontinuità, che collega libertà, coscienza e benedizione.

Questo è quanto affermano i Maestri di Israele nell’antico Trattato mishico di Avòth: “Beato è l’essere umano che è stato creato nell’immagine di Dio. Ma è stato per un ulteriore amore specialissimo che gli è stato detto di essere stato creato attraverso l’immagine di Dio”.

Questa benedizione riecheggia, con alcune differenze nel suo prosieguo, in Genesi IX, 1-2, dopo il diluvio. Gli inizi del genere umano, sia con Noah sia con Adamo, sono salutati con la benedizione: “prolificate e moltiplicatevi e riempite la terra”. Perché ricorre, tanto con Noah che con Adamo, la medesima benedizione riguardante le future generazioni e la permanenza in essere, con il contributo attivo dell’uomo, dell’umanità? I Maestri di Israele rispondono, già nell’antichità, rispettivamente in Sanhedrin 37a (e similmente nella Tosefta in loco) e in Sanhedrin 88b, così:

“per promuovere la pace nel genere umano, in maniera che nessun uomo dica al suo prossimo, mio padre è più grande del tuo”.

L’immagine di Dio in cui e attraverso cui l’essere umano è stato creato, assieme alla “con-discendenza” ribadita in Adamo e in Noè afferma potentemente e irrevocabilmente l’eguaglianza degli esseri umani tra di loro, nella loro radicale e indelebile diversità. Un’altra rivoluzione copernicana, teologica, etica, giuridica ed antropologica.

E non è assolutamente un caso che queste pagine bibliche, in cui la benedizione è impartita e veicolata dal “prolificate e moltiplicatevi”, ruotino attorno a uno dei più importanti, intimi, ineludibili e scottanti temi dell’umanità di oggi come di allora: che vedute ha la Torah in relazione all’essere umano “solo”, che non è bene che sia tale, e in relazione a quell’esigenza esistenziale radicale dell’uomo e della donna che unicamente il matrimonio può acquietare, sviscerare ed esaltare? quale è l’ideale relazione tra uomo e donna e, nello specifico, tra moglie e marito? quale il significato più profondo e vero dell’atto sessuale tra loro?

Ciò premesso, la teoria che pone l’esistenza della realtà a disposizione e in funzione dell’essere umano, vedendo quest’ultimo come elemento fondamentale e determinante della stessa, è normalmente recepita senza particolari obiezioni non solo dall’ermeneutica tradizionale, ma anche dall’etica tradizionale dell’ebraismo –e non solo dall’ebraismo-, molti e ben univoci risultando in proposito i riferimenti scritturali, espliciti ed impliciti.

Pur ribadendo che questo primato dell’umo non è incondizionato né illimitato, e sottolineato che la fruizione da parte dell’uomo delle cose e delle risorse del creato non può prescindere dal dovere di salvaguardare, mantenere e alimentare tali cose e tali risorse –si leggano al riguardo attentamente le espressioni “per lavorarlo e custodirlo” riferite ad Adamo nel giardino ‘Eden (Gen. II, 15) -, emerge purtuttavia da tale impostazione l’immagine dell’essere umano con fine ultimo della Creazione.

Su questo argomento delicato, che non occupa soltanto lo spazio di una discussione filosofica fine a se stessa, ma che coinvolge atteggiamenti etico-religiosi, Mosheh ben Maimòn, il Maimonide, formula, dalle pagine della sua Guida dei Perplessi, alcune osservazioni critiche miranti a ridimensionare il ruolo e la portata dell’uomo nell’economia del creato.

Sospinto dalla dottrina cosmogonica dell’ebraismo, che postula la venuta all’essere del mondo per un atto libero di un Dio personale e il controllo del medesimo a opera della Sua Provvidenza, Maimonide affronta il problema del fine dell’universo.

È noto che l’idea della Creazione è estranea alla mentalità greca e che, in termini di puro aristotelismo, il mondo è il prodotto, non già di un atto di volontà, ma di un’attività necessaria. Nell’ambito del pensiero greco, quindi, il problema del fine della Creazione non si pone.

Tale problema, tuttavia, nel ragionamento maimonideo, non è proponibile in realtà neppure nell’ambito della creazione volontaria. Considerare, per esempio, l’essere umano come fine ultimo della Creazione sarebbe un errore, perché così postulando dovremmo necessariamente ritenere una parte dell’universo come inutile e superflua e, contemporaneamente, negare l’esistenza di esseri spirituali superiori all’essere umano. Una tale questione, oltre a porre delle difficoltà e delle contraddizioni, innescherebbe un processo di regressione infinito. Se, infatti, supponessimo che l’essere umano fosse stato creato, per esempio, per adorare Dio, dovremmo interrogarci intorno al fine di tale adorazione e così via, senza fine.

L’universo creato, afferma Maimonide, ha certamente un fine, che è racchiuso nella volontà imperscrutabile e sovrana di Dio e che non può essere in alcun modo determinato attraverso motivazioni che siano al di fuori di essa.

Ecco, quindi, impostato l’aspetto teleologico della realtà universale, in cui l’essere umano appare sì elemento importante, ma non principale né determinante ai fini della sua economia.

Questa posizione maimonidea, per certi versi rivoluzionaria e forse discutibile sotto un profilo rigidamente esegetico, ha il merito di spingerci a interrogarci più sugli scopi e i compiti dell’esistenza, nell’ambito della realtà universale, che sulle spettanze e sui diritti dell’essere umano sul mondo e nel mondo. Un’etica dei doveri inalienabili e ineludibili dell’essere umano, che, qualora dovesse perderli e perderne il senso autentico, sarebbe violato nella sua dignità.

Non c’è dubbio alcuno che l’egoismo e l’egocentrismo siano un connotato costante e innato della condizione umana. Affermano i nostri Maestri nel già citato Trattato di Avòth che in assenza di un’autorità politica l’uomo divorerebbe vivo il proprio simile, anticipando di secoli le dottrine hobbesiane. Il senso di individualità proprio dell’essere umano, se da un lato lo sprona e lo responsabilizza sul piano delle scelte, dall’altro gli fa vivere spesso in maniera dialettico-conflittuale la presenza dell’altrui individualità. Ricordare questo è sano realismo.

L’alterità, in altre parole, è avvertita –e non sempre solo a livello istintuale- come antagonista, concorrente e persino nemica della propria individualità e quindi vissuta come limitatrice della propria potenzialità di espressione.

Beninteso, avvertire la propria individualità e conseguentemente agire tutelandola, è conforme a una corretta e positiva fisiologia e psicologia dell’esistenza umana e, come tale, è un bene, e non un male. Il problema si pone quando la coscienza della propria individualità diviene negazione dell’individualità altrui, sia singolare sia collettiva. In questo caso ci si trova sulla soglia di un’interpretazione patologica della socialità, sia sotto il profilo religioso sia sotto quello etico.

Da ciò che siamo venuti esponendo fin qui, possono forse essere tratte le seguenti considerazioni, abbondantemente recepite dall’ebraismo:

  1. l’essere umano, in tutta la sua variegata e misteriosa complessità, deve essere tutelato e deve pertanto continuare a rimanere l’elemento di riferimento imprescindibile di qualsiasi progettazione;
  2. l’antropocentrismo, tuttavia, non deve essere enfatizzato, ma contenuto, sia a livello concettuale che pratico, entro gli ambiti che gli sono propri, onde impedirne eccessi nei confronti della natura e della stessa umanità.