di Rav Giuseppe Laras
La festa di Purìm coincise con una svolta nella mia vita. Era finita da poco la guerra, avevo definiti23vamente perso tra le fiamme mia mamma e mia nonna, e mi ritrovai una sera in via Orto Botanico a Torino, in un’aula angusta e affollata di gente, tutti noi sopravvissuti, a prendere parte alla prima lettura della Meghillàth Ester di cui ho memoria precisa. Terminata la tefillah, assieme a un amico, venni avvicinato da Rav Dario Disegni z.l., che ci raccomandò di tornare al mattino seguente per la seconda lettura obbligatoria, con la promessa di un regalo. La mattina dopo, quando tutto finì, ci diede dei soldi e così iniziò a coinvolgerci nello studio della Torah e nella sua osservanza. Iniziammo in questo modo, apparentemente banale.
La storia di Purìm è avvincente e avventurosa, dall’esito lieto. La Meghillah, tuttavia, è un libro di difficilissima comprensione, “schermato”, che accenna e non dice. La Meghillah racconta fatti che furono, ma non solo: si tratta di un testo più allusivo che esplicito, interamente calato nel mistero di Israele, quello sua storia e della sua sopravvivenza.
Chi è l’eroe della Meghillah? Certamente Ester e Mordechai, tuttavia il nome che ricorre di più è quello del re, di Achashverosh. Uno dei soggetti principali è dunque, in relazione all’insorgere dell’antisemitismo, il mondo esterno con le sue influenti dirigenze politiche e culturali: è equiparato a un re senza spina dorsale, privo di ideali e di valori, senza nerbo né regola.
Ma vediamo cosa potrebbe insegnarci oggi la Meghillah.
- Vayehì bimé Achashverosh “e accadde nei giorni di Achashverosh” (I,1).
L’incipit della Meghillah fa presagire male, come osserva il Talmùd (Megh. 10b), rinviando a epoche di disordini e guerre. Nel capitolo XIV di Bereshith, che si apre esattamente con le stesse parole con cui inizia la Meghillah, così accadde al padre del nostro Popolo, Avraham Avinu, costretto a entrare in guerra per salvare Lot. Anche in quel caso, Abramo, archetipo di Israele, è drammaticamente solo, mentre l’umanità vicina a lui è scossa da due ideologie contrapposte: quella del potere orgoglioso, del dominio e della sottomissione, rappresentata dalla potenza bellica di Chedorla‘òmer, e quella, non meno insidiosa, dall’egoismo pronto a sovvertire ogni norma, incarnato da Sodoma e dalle altre città alleate. Fino a che Abramo non entrò in guerra, la vittoria, come era naturale che fosse, sembrava arridere a Chedorla‘òmer: nello scontro, infatti, tra permissivismo, relativismo ed egoismo e la forza del potere è inevitabile che vinca il potere con le sue logiche. Abramo, tuttavia, anche rispetto a Sodoma, rimase, in quanto ebreo, “separato”, “irriducibile”, “non assimilabile”: questo è il destino di Israele, nonostante tutto e tutti, ivi incluse le tendenze assimilazioniste di alcuni ebrei, ben rappresentate dalle scelte sbagliate di Lot. Eppure Lot è prezioso per Abramo e l’ebreo religioso ha dei doveri costanti e precisi, che non decadono mai, nei confronti di quello assimilato e riottoso, che deve accompagnare e non abbandonare, ritrovare e non disprezzare. Gli antisemiti cercano di distinguere da sempre tra laici e religiosi, tra laici sionisti e laici antisionisti, tra ebrei della Diaspora e israeliani, tra religiosi “aperti” e religiosi “chiusi”. Sono categorie dell’antisemitismo, non sono categorie ebraiche. Sappiamo per esperienza storica, come pure dal TaNaKh, che, quando le cose si mettono male, le distinzioni non reggono più e sia Lot sia Abramo si ritrovano entrambi nell’intemperie. Una delle differenze è che Abramo ha capito e che rivendica di essere attore della propria storia, ossia “ebreo”.
I giorni del re Achashverosh furono quelli di uomo di consumata stupidità, il cui governo sembra spesso vacillare, che sbaglia clamorosamente la scelta politica strategica più importante, ossia la nomina del suo “primo ministro” e plenipotenziario, avallando così i piani genocidari, dichiarati e mai negati, di un criminale. Parimenti, questo impero è in crisi economica, nonostante la sua apparente forza e l’enormità della sua estensione: sarà, infatti, abbastanza facile per Amàn blandire il re, in relazione alle sorti pessime riservate agli ebrei suoi sudditi, con la prospettiva di ricavi economici. Achashverosh è vittima del suo potere, che non sa gestire, e, prima ancora, di ideologie sbagliate, ottundenti, pervasive ed erosive, ove tutto è lecito e dove modestia, educazione, dignità e fermezza sono avversate.
In queste situazioni, lentamente ma inesorabilmente, l’antisemitismo cresce e prospera: le società si corrompono e si instupidiscono, esponendosi a nemici interni ed esterni, i quali nella “irriducibilità” e nella “resistenza” ebraica, religiosa o rappresentata oggi anche dallo Stato di Israele, ravvisano la radice e la causa dei peggiori mali.
Mi chiedo con angoscia se il nostro presente in Europa non sia poi così dissimile, e molti serissimi timori mi assalgono.
- Yeshnò ‘am echàd mefuzàr umforàd…”Dimora tra noi un popolo unico, sparso e disperso…” (III,8)
Il capitolo III della Meghillath Ester potrebbe essere intitolato “teoria e pratica dell’antisemitismo”, tanto esso è capace di illuminarne la dolorosa storia. È un’accusa antica quella della doppia identità: “straniero o residente? essere umano o creatura demoniaca? identità religiosa o identità di Popolo?” Ad essa si aggiunge quella odiosa della doppia fedeltà: “italiano ebreo o ebreo italiano? ebreo o israeliano?”. La tentazione e l’errore degli ebrei sono precisamente quelli, per timore di fraintendimenti, di semplificare -e così di fuggire con una risposta “politically correct”- l’estrema difficoltà a presentare l’ebraismo –e non la cosiddetta “cultura ebraica”- per quello che esso è ai non ebrei, ivi inclusi i molti sinceri amici.
Dice Amàn: “Dimora tra noi un popolo unico, sparso e disperso tra i popoli in tutte le province del tuo regno; e le loro norme sono diverse da quelle di ogni altro popolo, e costoro non osservano le norme del re; non vi è quindi beneficio per il re nel tollerarli”. Questa frase ci angoscia da secoli. Forse che ci sia, Dio non voglia, qualcosa di vero? L’antisemitismo si basa su menzogne e macchinazioni; il reale viene dunque deformato e usato, mescolando perversamente verità e menzogna: questa è la vecchia e rodata strategia impiegata da Amàn e dai suoi epigoni.
È vero: noi siamo anzitutto un Popolo, unico e indivisibile, verso il quale ogni ebreo è responsabile; noi abbiamo una dieta alimentare diversa rispetto agli altri e ciò crea una distinzione e una separazione precisa; noi non osserviamo le feste delle maggioranze, specie se di derivazione religiosa altrui; noi non permettiamo i matrimoni misti. Il motivo di tutto ciò? L’ossequio e la corrispondenza alla volontà di Dio che ci ha prescritto queste norme: Mordechai, indigeribile per Amàn, rappresenta esattamente tutto questo. Dove sta la menzogna? Amàn presenta Mordechai come uno specchio deformante presenterebbe un corpo di statuaria bellezza, rendendolo volutamente mostruoso. La conseguenza di questa azione è che si nega agli ebrei che siano al contempo comunque sempre stati parte attiva, responsabile e fedele del corpo sociale, di dare un contributo essenziale, quasi osmotico, al benessere materiale e spirituale delle società in cui vivono, di cui spesso si sono profondamente innamorati, risultandone tra i più intimi e originali interpreti. Questo vale anche per lo Stato di Israele, su cui si applicano i vecchi stereotipi antisemiti, ridotto a paria e mostro tra le Nazioni grazie alle campagne antisionistiche.
Paradossalmente, inoltre, il picco del rigetto antisemita nei confronti degli ebrei lo si raggiunge quando questi ultimi sono inconsciamente assimilati in altre maggioranze: fu così in Germania e nell’Italia del ’38, fu così in molti Paesi Arabi, fu così ai tempi di Achashverosh, epoca in cui gli ebrei erano una minoranza dispersa in 127 province esposta a fortissima assimilazione.
L’esito di queste macchinazioni è drammaticamente annunziato da Amàn: “distruggere, uccidere e sterminare tutti gli ebrei, dal giovine all’anziano, l’infante e le donne” (III,13).
Il terzo capitolo della Meghillah insegna un’ulteriore verità in relazione all’antisemitismo: esso ha un “crescendo”. Dapprincipio, infatti, l’antisemitismo appare di difficile individuazione, isolato e lento, esattamente come è il tempo narrativo dei primi tre capitoli della Meghillah, che abbracciano alcuni anni, poi l’accelerazione è massima e la ferocia del male, sdoganato, divampa.
- Al tedamì venafshèch leimmaleth beth ha-mèlekh mikkòl ha-iehudìm? “Non penserai davvero nel tuo cuore che tu potrai trovare rifugio nella casa del re, rispetto a tutti gli altri ebrei?” (IV,13)
Cruda ed estremamente scomoda è la domanda sferzante che Mordechai rivolge a Ester, quando quest’ultima, che potrebbe intervenire e far valer il suo ruolo di regina, sembra di primo acchito esitare e prendere tempo. Probabilmente, appreso il crudele e nefasto piano di Amàn, pensò che si trattasse di un delirio. Le democrazie occidentali, al pari di molti nostri correligionari, non credettero che il nazismo volesse davvero mettere in pratica quanto annunciato nel Mein Kampf. Molti non vi credettero e milioni di persone –e non soltanto gli ebrei- perirono. Lo stesso accade oggi in relazione al Jihadismo e all’Islàm politico, che annunzia da decenni i crimini che vuole compiere -che puntualmente realizza- e che, parimenti, da anni blandisce la “buona coscienza” occidentale con investimenti milionari in Europa, in Italia e non solo.
La reazione incredula di Ester comunque non fu isolata: il capitolo III della Meghillah si chiude con la constatazione che la città di Susa rimase navòkha, ossia “smarrita”. Gli ebrei, al pari di Ester, pensarono cioè che era impossibile, che questo non accade in culture raffinate ed evolute, come quella persiana, come quella europea di inizio ‘900…
Gli ebrei, radicati come sono nella verità che l’essere umano è creato nell’ “immagine di Dio”, hanno incredibilmente difficoltà, come ben spiega Rav Soloveitchik, a comprendere ciò che questo significa: ossia che gli esseri umani possiedono sì inalterabile la capacità del bene, ossia un potenziale di eroismo morale e di santità, ma poi spetta però a ciascuno attivarlo. Al contempo, è purtroppo altrettanto vero che “il cuore dell’uomo è cattivo sin dalla tenera età” (Genesi VI,5). Noi neghiamo facilmente il potenziale malvagio dell’essere umano e questo ci rende vulnerabili. Non sono fatti che riguardano unicamente il passato, ma, come è sotto gli occhi di tutti, anche il presente. Noi dimentichiamo, infine, che esistono anche ragionamenti malvagi, che precedono spesso le azioni, e che l’antisemitismo, incluso l’odierno assordante antisionismo, è un prodotto culturale figlio di intelletti corrotti, il lato oscuro di visioni idealistiche e utopiche, rilucenti di retorica “umanistica”.
Mordechai, con il suo fermo interrogativo, è colui che non lascia scampo alle esitazioni di Ester, salvandola e salvando così il Popolo Ebraico: è esigente e duro. Ester è necessaria per la salvezza di Mordechai e di ‘am Israel in un altro modo: è introdotta in ambienti ad altri preclusi, parla un linguaggio che Mordechai non saprebbe parlare. Sono necessari l’uno all’altra ed entrambi al Popolo di Israele. Non agiscono in contrasto tra loro, ma in sinergia.
Chi possono essere Ester e Mordechai oggi? Che Ester sia l’ebraismo diasporico, che ha la vitale necessità di essere pungolato da Israele, odierno Mordechai? Che Mordechai sia l’ebreo religioso che richiama i suoi fratelli dai fascini dell’assimilazione e del buonismo pacifista, imbelle rispetto al male e vigliacco in relazione al bene? Che Ester sia l’ebreo colto, fedele al suo Popolo e alla sua tradizione, che riesce a trasmettere i tesori dell’ebraismo in altri contesti, beneficandoli? Che, ancora, Ester sia l’ebreo coraggioso che, ove e non appena può, spiega al mondo le necessità del suo Popolo e i pericoli cui può essere esposto per combatterli e fugarli? Che, nel panorama religioso ebraico contemporaneo, Mordechai sia figura del mondo Haredì mentre Ester dell’ebraismo Modern Orthodox?
Nessuno dei due è disponibile a fare sconti; nessuno dei due può più assecondare eventuali titubanze; entrambi hanno compreso la gravità e l’urgenza della situazione. Non possiamo entrare nella trappola suicida di un ipotetico conflitto: dobbiamo entrare nell’ottica sinergica e salvifica propostaci dalla Meghillah. Questa è la leadership di cui ha bisogno il Popolo Ebraico. Questa è la leadership che i tempi impongono oggi, con inedita ed epocale urgenza, all’ebraismo italiano, sì che quest’ultimo possa ribaltare, con una radicale svolta rispetto al passato, anche recente, in meglio le proprie sorti. E siamo già in ritardo.