di Marco Fossi
Parlare di libri con un intellettuale di lungo corso come Pierluigi Battista, Pigi per i numerosi amici, è sempre un piacere; ma parlare con lui in veste di autore è un piacere al quadrato, perché aggiunge all’analisi sfaccettata dei problemi della persona colta l’impeto passionale del creatore, di chi scrive sulla scia di un’urgenza profonda, di un bisogno quasi fisiologico di condividere con gli altri ciò in cui crede. E così il Pierluigi che tutti conoscono, affabile e tranquillo nei salotti letterari o televisivi, lascia spazio al trasporto, quasi alla furia. Nel caso del suo ultimo libro, una furia ebraica, tanto più notevole se pensiamo che Battista non è ebreo: «È vero» conferma «non si tratta di una questione identitaria personale. Le mie convinzioni nascono dalla logica, non dall’appartenenza.»
Il mestiere della penna, che poi non è un mestiere ma una vocazione, vede Battista debuttare nel giornalismo già alla fine degli anni Settanta, dopo la laurea a Roma. Dopo aver scritto per l’Espresso, nel 1988 firma per il settimanale Epoca e per Storia Illustrata, allora diretti entrambi da Alberto Statera. Nel 1996 è vicedirettore di Panorama, chiamato da Giuliano Ferrara. Poi è editorialista alla Stampa, e infine per un quinquennio vicedirettore del Corriere della Sera, di cui oggi è inviato.
È autore di una dozzina di libri: molti ricorderanno lo scalpore (il vespaio, qualcuno direbbe) suscitato dalla sua penultima fatica, I conformisti. L’estinzione degli intellettuali d’Italia (Rizzoli, 2010). E ora, seppure su tutt’altro tema, lancia di nuovo il sasso, ma – come è nel suo stile – senza nascondere la mano. E, non curandosi dei conformismi correnti, decide di mettere nero su bianco una verità, ovvero la denuncia dell’antisemitismo non detto e mascherato da antisionismo, a quanto pare in questa nuova veste più politically correct nei salotti, veri e televisivi, liberal e di sinistra di molti posti nel mondo.
Il suo Lettera ad un amico antisionista (Rizzoli, 2011) punta il dito su quello che gli americani chiamerebbero “l’elefante nella stanza”: una verità imbarazzante ed evidente di cui però non si vuole parlare.
«Sì, è così. E forse era ora che qualcuno lo dicesse con chiarezza. C’è una contraddizione stridente nel comportamento di chi coglie ogni minimo spunto per protestare contro la politica di Israele, per assumere posizioni pro Palestina, e però non muove un dito su temi come l’oppressione dei curdi o degli uiguri in Cina; tra chi scende in piazza a protestare contro il blocco di Gaza ma tace sulle stragi in Ruanda, in Zimbabwe, in Somalia o in Kashmir.»
Insomma, lei ci vede un atteggiamento di condanna a priori.
«Esatto. Io la chiamo ostilità preventiva. È il meccanismo demonizzatore che abbiamo visto, purtroppo, tante volte in funzione nella storia. Ora, dopo la Shoah, non si può apertamente essere antisemiti, la storia non ce lo permette. E allora si diventa antisionisti a prescindere.»
Nel libro lei scrive: «Fare di Israele la figura crudele della storia contemporanea indica l’ebreo come responsabile delle peggiori nefandezze, riversando l’odio sul nuovo mostro contro cui è legittimo rivoltarsi. Davvero nuovo?». Come spiega che questa macchina dell’odio preventivo si sia rimessa in moto, e in particolare in ambienti non retrivi e conservatori, ma progressisti e liberal?
«Si tratta di una percezione che si afferma con forza a partire del 1967, e che da allora non ha fatto che crescere. Vorrei darne una lettura che, prima ancora che politica, è psicologica. È avvenuto un fenomeno di rovesciamento dei ruoli: le vittime di ieri, gli ebrei, sono diventati, per gli antisionisti, i carnefici di oggi, che opprimono i “poveri” palestinesi. Al fondo, gli ebrei di Israele incarnano il ruolo – non richiesto – di proiezione identitaria della civiltà occidentale nel Nord Africa. E così come il pensiero occidentale condanna il colonialismo, e l’oppressione del mondo arabo, con un cortocircuito prerazionale condanna pure il progetto di uno Stato di Israele quale espressione della prepotenza occidentale. Insomma, Philip Roth aveva ragione. C’è una cultura ostile che si fissa, ossessivamente, sul ruolo del perseguitato che diventa persecutore.»
Un’idea un po’ manichea del mondo.
«Come tutte le idee manichee, facili ma sbagliate, nella sua facilità trova agevolmente spazio. E inietta veleno nei difficili rapporti israelo-palestinesi. Forse era il caso che qualcuno lo dicesse chiaramente.»
Come se ne esce?
«Non esistono soluzioni semplici ai problemi complessi. Ma penso di poter sottolineare che una soluzione ragionevolmente duratura, e sottolineo ragionevolmente, non può prescindere dal concetto “due popoli, due Stati”, che al fondo fa appello agli elementi moderati palestinesi e israeliani. Bisogna però notare che Israele si trova in una posizione peculiare: è l’unico stato non arabo in mezzo a un oceano arabo.»
Un oceano in tempesta: qualcuno ha detto che i sommovimenti di questo febbraio 2010 nel Nord Africa sono una specie di crollo del muro di Berlino alla musulmana, e che d’ora in poi nulla sarà come prima.
«Certamente è un fattore di discontinuità politica, una frattura, molto importante e forse per qualcuno inaspettata. E altrettanto certamente Israele scruta con attenzione, anche con apprensione, quello che sta succedendo nel giardino dei vicini. È ovvio che, se crolla un tiranno, siamo tutti contenti, a maggiore ragione Israele che è una democrazia, cosa tutt’altro che frequente in quella zona. Ma il rischio è che a un regime totalitario, ma tutto sommato neutro o non ostile a Israele, si possa sostituire un nuovo regime religiosamente aggressivo. Pensiamo a quello che è successo nel 1979 in Iran: quando è caduto lo Scià tutti hanno festeggiato la caduta del tiranno. Ma dopo è nata non una libera democrazia, ma una teocrazia oppressiva.»
Qualcuno ha voluto leggere il titolo del suo libro come una sorta di risposta, per quanto lontana nel tempo, a Sergio Romano che scrisse dieci anni fa Lettera a un amico ebreo.
«Be’, a parte che una decina di anni per elaborare una risposta mi sembrano un po’ tanti, vorrei gettare un po’ di acqua sul fuoco delle polemiche, se polemiche sono state. È vero, sono in profondo disaccordo con Romano quando lui contesta la legittimità dell’esistenza dello Stato di Israele, e osservo che non esiste un caso analogo nella storia di uno Stato che non viene combattuto nella sua potenza politica o militare, ma contestato nella sua legittimità a esistere. Questo mi risulta davvero incomprensibile. Detto questo, osservo però che a Romano ha già replicato, e bene, Sergio Minerbi nel suo libro Risposta a Sergio Romano. Ebrei, Shoah e Stato di Istraele (Giuntina, 1998). Minerbi punta il dito sull’argomentazione, cara a Romano, che gli ebrei utilizzino in maniera strumentale il dramma dell’Olocausto per sostenere le loro pretese politiche attuali, in qualche modo strumentalizzando milioni di morti. A ciò Minerbi ribatte: “L’insinuazione subdola e ripugnante che gli ebrei vogliano mantenere vivo il ricordo della Shoah per reconditi scopi propri è particolarmente offensiva e falsa. Gli ebrei, come qualsiasi altra nazione, vogliono conservare la memoria della propria storia per poter ritrovare un’identità”. Ecco, nel mio libro sottolineo che Romano non è antisemita, ma è vittima di questa diffidenza di matrice illuminista, tipica di un mondo conservatore europeo, che vede negli ebrei, per dirla in modo semplice, un elemento di confusione che destabilizza un quadro altrimenti ordinato.»
Così è nata la sua denuncia appassionata, che a qualcuno ha ricordato, nello stile, una sorta di «tendenza Fallaci».
«La Fallaci, con il suo La rabbia e l’orgoglio, ha praticato un genere letterario preciso, quello dell’invettiva. In non inveisco contro nessuno. Il mio è un dialogo colloquiale con un interlocutore ideale, antisemita ma definito amico. È una lettera emotiva e una riflessione morale.»
Ed è qui il senso più profondo del suo scritto.
«Esattamente. Il senso è che un non ebreo racconta di un conflitto pluridecennale che si è sovraccaricato di menzogne di alterazioni. E vuole chiarire alcuni punti fermi, a partire dall’antisemitismo mascherato da antisionismo, non per un sentimento di appartenenza, ma per una ragione più profonda: perché è giusto farlo, perché gli ebrei hanno ragione.»