Cinici e smemorati: gli italiani, la Shoah e l’ebreo della porta accanto

Libri

di Fiona Diwan

Perché gli italiani non hanno mai fatto veramente i conti con l’Olocausto? Se lo chiedono gli autori di “Storia della Shoah in Italia”, una grande opera che fa il punto non solo sui fatti storici ma anche sui tortuosi processi dell’oblio, della rimozione e del ricordo collettivo

Abramo Piperno fa ritorno a Roma: è l’unico scampato ad Auschwitz di tutta l’intera famiglia. Ma il suo bell’appartamento è ormai occupato dai Torquati, i vicini di casa che non paghi di aver denunciato i Piperno alla polizia fascista, oggi si sono impossessati anche dei loro beni. Siamo nel 1952, sono passati nove anni dalla retata del ghetto di Roma, il 16 ottobre 1943, e la proterva matriarca Torquati fa finta di non riconoscere il redivivo Piperno (l’attore Leopoldo Trieste) che, dalla porta d’ingresso, la guarda con occhio amaro e stralunato. Lo sciacallaggio del clan Torquati ai danni di un ebreo scampato dai lager suscita persino il definitivo disgusto del protagonista del film, un Totò tragico, misuratissimo e dolente, vittima anch’egli dei raggiri e della grettezza dei Torquati.

Questa che stiamo raccontando è forse la scena più toccante di Dov’è la libertà, di Roberto Rossellini, uno dei primi e pochi film italiani ad affrontare il tema dell’Olocausto. “Un film simbolo del comportamento degli italiani nei confronti della Shoah: il silenzio, l’oblio, che circonda il destino della famiglia Piperno diventa l’emblema dell’incapacità degli italiani di approfondire gli oscuri recessi della loro complicità negli eventi del periodo 1938-45. Lo sfruttamento da parte dei Torquati dei loro sfortunati vicini e l’agiatezza che ne hanno ricavato, sono il lato oscuro di una ricostruzione che non osa guardarsi indietro per prendere atto del male su cui è fondata… Una delle pagine più spregevoli della nostra storia, che attesta un fenomeno tipicamente italiano, quella che io definisco la memoria debole della Shoah”, spiega lo storico di Yale, Millicent Marcus, nel suo interessante saggio su cinema italiano e Shoah, contenuto nel secondo volume di Storia della Shoah in Italia, Utet.

Un’opera che affronta non solo le vicende storiche ma anche i temi della memoria e di come la cultura italiana, dal dopoguerra fino a oggi, abbia in verità pochissimo fatto i conti con quegli eventi. Come, appunto, si evince dal film di Rossellini. I due volumi della Storia della Shoah in Italia, usciti da pochi mesi (1300 pagine, in vendita presso le Agenzie Utet, www.utet.it), sono certamente quanto di più esaustivo e aggiornato sia finora stato prodotto circa gli avvenimenti dell’Olocausto. Grande merito quindi va all’editore e al pool di storici che hanno curato quest’opus magnum, da Marcello Flores a Simon Levis Sullam, da Marie Anne Matard-Bonucci a Enzo Traverso… Il prezzo pagato dall’Italia nella Shoah – è bene ricordarlo -, fu di 8 mila vittime. Altissimo, se solo pensiamo che nel 1938 gli ebrei in Italia erano circa 20 mila. I due volumi raccolgono quindi non solo i frutti della più recente stagione storiografica ma ci aiutano a fare il punto sull’elaborazione italiana della memoria e del lutto. Dalla Soluzione finale all’occupazione nazista, alle varie forme dell’antisemitismo. E poi il ruolo della Chiesa cattolica, silente e afasica di fronte alla Shoah nei suoi più alti vertici gerarchici e tuttavia così prodiga di salvataggi e nascondimenti sul piano personale, dei singoli religiosi o dei membri appartenenti a conventi o consessi monastici che imboscarono intere famiglie ebraiche in fuga. Mentre il primo volume ricostruisce la storia degli eventi alla luce di nuovi documenti e interpretazioni, il secondo si sofferma invece sull’eredità di quel drammatico periodo. Si indagano così i tortuosi percorsi dell’oblio, i meccanismi della rimozione o dell’autoassoluzione, il recupero del ricordo sia sul piano della coscienza individuale sia collettiva, fino alla recente istituzione del Giorno della Memoria come forma di riconoscimento pubblico della peculiarità specifica di quel dramma ebraico e italiano.

“Quando si iniziò a recepire in Italia la Shoah come tragedia? Molto tardi, a fine anni Settanta. Solo oggi esiste un unico ecosistema della memoria e la Shoah viene percepita in tutta la sua portata e implicazioni. Ma non è sempre stato così. La cognizione della Shoah come evento spartiacque nella storia del Novecento è cresciuta in Italia soltanto a partire dal 1978 con la fiction tv Olocausto. La percezione collettiva cambiò in quel momento, grazie anche a una televisione che rese più accessibili i saperi storici. Certo c’erano stati film come Kapò di Gillo Pontecorvo, c’era stato il processo Eichmann, ma l’impatto di quel film a episodi fu determinante”, spiega la storica Valentina Pisanty, dell’Università di Bergamo. “Ricordo che quella fiction venne molto criticata, accusata di banalizzare e di offrire una facile catarsi. Elie Wiesel la stroncò sul New York Times aprendo un dibattito furibondo sulla irrappresentabilità della Shoah e sui testimoni come unici personaggi abilitati a esprimersi, unici depositari del diritto di parola. I cosiddetti banalizzatori furono accusati di usare la tragedia solo per far spettacolo, stessa accusa mossa in seguito anche a Spielberg e Benigni. Sul lato opposto, si è fatta strada invece una tendenza sacralizzante che costruisce intorno alla Shoah un tabù rappresentativo: se per i sacralizzatori c’è un’oscura grandezza mistica della Shoah -che va messa al riparo da qualsiasi tentativo di equiparazione-, per i banalizzatori invece la Shoah resta una tragedia come le altre, immane certo, ma non più di tanti altri genocidi della storia. È da qui che nasceranno tutte le equiparazioni tra la tragedia dei palestinesi e quella degli ebrei o, sul versante opposto, come ripeteva Menachem Begin, nel dire che Arafat è come Hitler. Sì, il 1978 è la vera data spartiacque: in quell’anno inoltre scoppia il caso Faurisson e nasce il negazionismo. E si definiscono i tre atteggiamenti ancor oggi dominanti e che si incastrano tra loro come gli elementi di un puzzle (i sacralizzatori, i banalizzatori e i negazionisti, appunto). È Faurisson del resto, il primo che inizia a esprimere dubbi sull’affidabilità dei testimoni, sull’autenticità del Diario di Anna Frank e sull’esistenza delle camere a gas (dopo lo scandalo verrà cacciato dall’Università di Lione 2). Dando vita a metastasi interpretative che ancor oggi, come miasmi velenosi, inquinano la mente di troppe persone”.

Superare il vittimismo

“Ogni decennio ha usato parole diverse per definire quell’evento: Sterminio negli anni Cinquanta, Olocausto nei Settanta, Shoah dopo i Novanta”, dice David Bidussa, storico. “Io mi sono sempre chiesto perché l’Italia, per ricordare la Shoah, abbia avuto bisogno di ricorrere alla data della liberazione di Auschwitz, il 27 gennaio 1945. I francesi hanno il 16 luglio 1942, data-simbolo della rafle al Velodromo d’inverno, ovvero l’internamento di 13 mila ebrei francesi. Noi avremmo potuto scegliere il 16 ottobre 1943, data del rastrellamento del ghetto di Roma, o come luogo-simbolo il lager della Risiera di San Sabba a Trieste. Invece no. E sapete perché? Perché noi italiani non abbiamo mai ragionato veramente sulla Shoah, non abbiamo mai accettato le nostre responsabilità, non abbiamo mai superato il mito del bravo italiano. Celebriamo la memoria ma nel contempo ne siamo fuori, non ci riguarda, non è avvenuto qui da noi ma laggiù ad Auschwitz, lontano in Polonia, in un luogo remoto che con noi ha poco a che fare”, dice Bidussa e prosegue: “Da parte ebraica invece, penso che sia urgente superare la sindrome vittimistica, e rinunciare al primato di super-perseguitato. Uscire insomma da un’interpretazione chiusa e andare verso una interpretazione universalistica, accettandosi nel ruolo universale di vittima, parimente a tutti gli offesi e perseguitati del mondo, riconoscendo le identità plurali di chi è colpito dal razzismo.

Non dimentichiamoci che oggi, lo statuto di vittima è particolarmente ambito: tutti hanno ottenuto la loro giornata della memoria, basta guardare il calendario. C’è la giornata delle vittime del lavoro, delle vittime del terrorismo, delle vittime della violenza familiare…”.