di Esterina Dana
Chi è Yoshe Kalb, Yoshe il tonto? Ce lo racconta Israel J. Singer in un romanzo dal ritmo incalzante che travolge il lettore senza lasciargli scampo. Scritto nel 1932, originariamente in yiddish e successivamente tradotto in inglese, fu pubblicato a puntate sul Jewish Daily Forward a New York dove l’autore si trasferì nel 1933, ottendendo un tale successo che se ne trasse subito una versione teatrale, la migliore pièce in yiddish dopo il Dybbuk. Yoshe Kalb contiene in nuce i temi principali dei due romanzi-fiume di Singer, I fratelli Ashkenazi (1936) e La Famiglia Karnowski (1943), e risolve un periodo di grave crisi artistica che lo riconduce all’abbandonata lingua yiddish e al mondo chassidico dal quale proveniva.
Il romanzo narra la storia vera di un personaggio realmente vissuto in Galizia, le cui vicende turbarono per molto tempo la comunità chassidica del luogo. La straordinaria vena affabulatoria dello scrittore si manifesta nella trama, fil rouge sul quale si snoda la tematica centrale dell’ebreo errante, metafora della crisi d’identità del primo ‘900.
Il racconto è un grande affresco delle comunità dei chassidim galiziani di quell’epoca, un mondo percorso da invidie, meschinerie e lotte intestine per il potere, un universo brulicante di mendicanti macilenti e ricchi aristocratici, credenze integraliste, subdoli sotterfugi, superstizioni e ossessivi rituali descritti al microscopio con implacabile razionalità. Lo spazio narrativo è quello di un mondo in cui convivono animali da cortile, rabbini e schnorrer, imbroglioni e uomini onesti, commercianti, esseri tragicamente ingabbiati in assurdi matrimoni combinati, ebrei fino in fondo e tuttavia alla ricerca di una impossibile identità.
Le donne costituiscono l’elemento sovvertitore; la loro ribellione svela agli uomini la realtà del loro essere, accrescendone il senso di sperdimento e confusione.
Quella di Yoshe Kalb è quindi la descrizione impietosa e ironica di un certo Chassidismo, è la fotografia di un mondo in cui, come diceva il Ba’al Shem Tov, si doveva amare Dio nella gioia, ma che vive una dimensione religiosa priva di misticismo e spiritualità. Ma è anche la storia di un amore appassionato, proibito e condannato che produce fuga, morte e follia. E quindi Yoshe Kalb è anche la storia di uno sradicamento. Nahum, il colto e delicato figlio del Rabbino di Rachmanikve totalmente dedito agli studi delle Sacre Scritture e ai digiuni rituali, sposa per forza la grossolana e ignorante Serele, figlia del rabbino Melech. Tuttavia, cede alla passione per la giovanissima ribelle e conturbante Malka, moglie di suo suocero. L’incontro è un incendio che si incarna in quello reale della sinagoga della corte rabbinica, metafora di un amore distruttivo che provocherà malattia e morte. Nahum fugge travolto dall’angoscia e dal rimorso. Riappare dopo 15 anni, ma qualcuno lo riconosce come “Yoshe il tonto”, sposato con la figlia dello scaccino della sinagoga e becchino del cimitero di Bielogura. Quindi un bigamo, un uomo con due identità. La corte rabbinica ne è sconvolta. Nahum/Yoshe viene condotto davanti a un tribunale di settanta Rabbini e interrogato ripetutamente, ma il silenzio che oppone alle domande che gli vengono poste è tenace e a chi gli chiede chi è, risponde solo: “Non lo so”.
Alla fine, “il Santo”, uno dei Rabbini più rispettati, interroga personalmente il mendicante ed emette la sua sentenza: “Sei Nahum e sei Yoshe; sei un dotto e sei un ignorante…”.
Come Pirandello nel Fu Mattia Pascal, Singer racconta la storia di una doppia identità che conduce alla tragedia, solo che la interpreta alla luce della religione ebraica: l’identità religiosa è una e indivisibile. Può un ebreo essere assimilato? Il finale è una sorpresa.
I.J. Singer, Yoshe Kalb, A cura di Elisabetta Zevi, Traduzione di Bruno Fonzi, Biblioteca Adelphi, 2014, pp. 281, € 18,00