di Esterina Dana
Aprendo I fratelli Oppermann di Lion Feucthwanger (1884-1958) ci si aspetta un romanzo sull’Olocausto scritto dopo l’Olocausto. Poche pagine e ci si accorge subito che non è così. La vicenda si snoda tra la fine del ’32 e il ’33, anno stesso della sua pubblicazione. La sua bellezza e grandezza sta proprio nel fatto che è scritto prima dell’Olocausto, cosa che rivela la straordinaria capacità profetica del suo autore.
Fu pubblicato in tedesco dalla casa editrice Querido di Amsterdam inizialmente con il titolo I fratelli Oppenheim, perché all’ultimo momento Feuchtwanger aveva dovuto cambiarlo a causa delle minacce di un nazista tedesco di nome Oppermann. Fu subito tradotto lo stesso anno in diverse lingue. Nel ’34 uscì in Usa e in Francia. Ora è nelle librerie italiane nella versione riveduta e aggiornata nel 1934 da Ervino Pocar per i tipi della «Medusa» e che apparve in Italia solo nel 1946. L’autore, romanziere e commediografo tedesco di origini israelite, fu tra i primi (1926) a riconoscere il pericolo costituito da Hitler e dal suo partito. Osteggiato e minacciato dai fascisti, distrutti dal furore tedesco la sua casa e i suoi libri, nel gennaio 1933, dopo una fuga rocambolesca, sbarcò in America proprio mentre in Germania Hitler saliva al potere.
Primo Levi lesse il romanzo in un’edizione clandestina francese: pagine in cui si descrivevano le “atrocità naziste”, questo il suo commento; già allora tutto il mondo avrebbe potuto aprire gli occhi sulla catastrofe imminente. Non fu così.
I fratelli Oppermann tratta della caduta di un’agiata famiglia di ebrei tedeschi, mobilieri da tre generazioni, travolta dall’affermarsi del nazismo, ma non solo; fotografa gli avvenimenti storici in una sorta di fermo immagine prima, durante e subito dopo l’avvento al potere di Hitler, una scansione confermata anche nei titoli dei tre capitoli in cui è suddiviso il romanzo: Ieri, Oggi, Domani. Lo scrittore mostra con sguardo impietoso l’ostinata cecità di Berlino di fronte alle affermazioni e alle azioni efferate sempre più numerose e intense che facevano strage della civiltà. Attraverso la storia di tre fratelli, Edgar un medico, Martin un industriale, Gustav un intellettuale, e di quelli che gli sono vicini, il commesso Wolfsohn, la moglie non ebrea di Martin, il cognato Lavendel, Feucthwanger ci scaraventa contro tutta la brutalità del nazismo in una sorta di istant book. Dal racconto emerge il quadro di una società inconsapevole e politicamente impreparata di fronte alla Storia, la quale assiste all’affacciarsi del Nazismo nella Germania degli anni Trenta con ignoranza, leggerezza e protervia.
Gli Oppermann costituiscono un emblema non solo degli ebrei tedeschi benestanti, colti ed emancipati, ma il paragadigma dell’Europa che precipita nel vortice di una tragedia reale fatta di svastiche, discriminazioni e tradimenti.
Il romanzo, a detta dello stesso autore, non presenta uomini reali, ma storici, il che ne fa un romanzo militante, un documento minuzioso sulla vita quotidiana dei cittadini tedeschi: vittime, complici e spettatori silenziosi. Feuchtwanger denuncia la morte del diritto e il “sadismo legalizzato”, come dice.
Non siamo ancora alla Entartete Kunst (Arte degenerata – 1937), ma la persecuzione di scrittori capaci di veridici affreschi narrativi era già iniziata con i roghi dei libri di Werfel, Zweig, Döblin e dello stesso Feuchwanger, condannato a morte in contumacia.
Il racconto si apre il 16 novembre, il giorno del 50° compleanno di Gustav, raffinato e spensierato esteta, tutto dedito alle biografie letterarie. I suoi fratelli, Edgar e Martin, sono il primo, un geniale chirurgo di successo, il secondo, più concreto, il manager dell’azienda che cerca di sottrarre ai rovesci economici. La decadenza della famiglia si consuma in pochi mesi; oggetto della campagna antisemita, subisce angherie di vario genere, tra cui la rinuncia al nome tradizionale della fabbrica perché troppo ebraico, sostituito con quello di Mobilificio Germanico. Si aggiunge la persecuzione sottile e crudele di Berthold, figlio di Martin: studente liceale pensoso e orgoglioso, il 28 febbraio 1933, all’indomani dell’incendio del Reichstag, preferisce suicidarsi piuttosto che abiurare il contenuto della sua tesina, che ha cercato di sostenere davanti al suo professore di tedesco, nazista. Straziante è la solitudine in cui viene lasciato dal preside, dagli amici, dalla famiglia stessa.
Rapidamente le parole dell’odio contro gli ebrei diventano azioni che colpiscono anche i tanti tedeschi perbene, amanti della loro patria, della loro cultura e della loro lingua.
Straordinaria la capacità dello scrittore di ritrarre insieme sentimenti ossimorici: sconforto e illusione, presentimento di una catastrofe e tenacia nell’ignorarlo.
Gli Oppermann non solo non riescono a vedere i segnali delle tragedia che sta per colpirli, ma non credono nemmeno a coloro che cercano di metterli in guardia e si ritrovano, inconsapevoli, a vivere in un ambiente ostile. Il background storico narrativo è un’atmosfera di fiduciosa attesa della rinascita tedesca promessa da Hitler che, infine, confluisce nella sua nomina a Cancelliere, nelle ronde naziste, nell’incremento delle restrizioni per gli ebrei: licenziamenti, devastazione delle loro abitazioni, assassinii, deportazioni nei campi di concentramento.
Gustav è costretto a rifugiarsi in Svizzera. Lì, informato di più vasti orrori, distrutto dalla consapevolezza, lo raggiungono gli altri fratelli. La nipote parte per la Palestina.
Nel racconto della caduta di casa Oppermann, Feuchtwanger, inascoltato come tutti i profeti, denuncia l’enormità politica e morale di quanto stava succedendo in Germania a un mondo occidentale sordo. Alla fine del romanzo, per gli Oppermann non resta che la diaspora, vissuta come una condanna: “Martin va a Londra, Edgar a Parigi, Ruth è a Tel Aviv, Gustav, Jacques, Heinrich andranno chissà dove: sparpagliati sui mari del mondo, ai quattro venti”. Inevitabili alcuni paragoni. Il primo con I Buddenbrook di Thomas Mann, che narra il pluridecennale disfacimento di una dinastia di borghesi tedeschi, mentre qui si parla della rapida caduta di una dinastia di ebrei borghesi tedeschi che coincide con l’annientamento di un’intera civiltà. Il secondo con I Fratelli Ashkenazi, di Israel J. Singer: scritto in yiddish e non in tedesco, ma anch’esso tragicamente profetico.
Il terzo con La famiglia Karnowski, sempre di I. J. Singer, che illustra il rapido percorso in discesa dai saccheggi e alle irrisioni pubbliche, fino alle torture e ai campi di concentramento.