di Aldo Baquis
Il personaggio: Dorit Rabinyan
La Persia della sua famiglia d’origine. Gli errori della politica israeliana con i sefarditi. Le strade profumate di Tel Aviv e Manhattan. Parla l’autrice del romanzo-scandalo Borderlife: dalla questione dell’identità al suo amore per l’Italia e gli italiani
Un successo commerciale di tali dimensioni non si vedeva da tempo in Israele. Borderlife – il controverso romanzo di Dorit Rabinyan su un amore che sboccia a New York fra la traduttrice israeliana Liat e il pittore palestinese Hilmi – ha venduto in Israele 60 mila copie: 25 mila quando fece ingresso nelle librerie, e altre 35 mila dopo lo scompiglio provocato dalla decisione del ministro dell’istruzione Naftali Bennett di escluderlo dalla lista dei libri consigliati ai liceali iscritti a corsi di letteratura. Quella di Rabinyan è oggi una delle voci più ascoltate fra gli intellettuali israeliani. In realtà l’attenzione si era polarizzata su di lei fin dall’esordio con Spose persiane, un libro su una piccola comunità ebraica segregata in Iran. Era il 1995 e in tv la scrittrice in erba si trovò un giorno accanto a Yitzhak Rabin, pochi mesi prima del suo assassinio. In quella occasione lei – figlia di ebrei immigrati dall’Iran – fece notare con tatto allo statista che aveva appena compiuto un errore di ebraico. Lui le lanciò un sorriso impacciato, dove però si leggeva anche una dose di ammirazione.
Riguardando adesso quelle immagini sul telefonino, Rabinyan sospira: «Quant’era carino! Come era dolce! Oggi non abbiamo più dei leader, abbiamo solo dei governanti potenti».
Spose Persiane uscì mentre il processo di pace sembrava prendere quota, sebbene, nelle strade, il conflitto interno con la Destra fosse aspro.
Come si spiega allora il successo di un libro che parlava di tutt’altro?
Quello era un periodo di euforia, di opportunità che si aprivano, c’era un senso di onnipotenza. I tempi erano maturi per ascoltare la narrativa altrui. Si dice: “Il primo romanzo che scrivi, è su di te”. In realtà era la storia di mia nonna. Avevo urgenza di narrarla, perché era stata messa a tacere per generazioni: erano state persone costrette a vivere in uno stato di mentalità subalterna, non considerate, cancellate. Fu una specie di riparazione postuma. E quando il libro uscì, mia nonna disse: «Ecco, la mia valigia di memorie è divenuta ora una pietra nell’edificio della cultura israeliana». Da quel momento divenne una specie di celebrità, nella sua sinagoga le diedero anche un posto di riguardo.
Nel tuo film televisivo Il Ragazzo di Shuly mostri una famiglia sefardita in un momento critico. Mentre nel salotto cresce l’attesa di conoscere il fidanzato della figlia minore, il rione popolare dove essa vive è in fermento per l’esito delle elezioni con cui (maggio 1977) verrà proclamato vincitore Menachem Begin. Perché rendere quella sincronia necessaria alla trama?
Perché Mazal, la sorella maggiore di Shuly, in quel frangente compie una scelta, e dalla passività passa alla attività. Prende in mano la propria vita (lasciando la famiglia, dove si sentiva oppressa, n.d.AB). Anche gli ebrei sefarditi si erano sentiti passivi, al loro arrivo. Erano stati come “importati” dalla leadership sionista. Nel 1977 cessarono di essere israeliani passivi, embrionali: come Mazal presero il futuro nelle proprie mani e con quel voto scelsero un loro Re, appunto Begin.
Da Begin in poi, il Likud ha espresso solo premier askenaziti. Su cosa si fonda allora il profondo sodalizio con la base sefardita?
Per comprendere il codice segreto degli ebrei orientali bisogna osservarli quando si guardano allo specchio: sono così simili agli arabi, e vogliono proclamare la loro diversità. Una sera mia padre tornò nervoso dal lavoro, e si tagliò i baffi. «Perché l’hai fatto?» gli chiedemmo. Perché – rispose – alla stazione degli autobus una soldatessa gli aveva chiesto la carta di identità, ritenendolo un arabo. Ecco allora che la moglie di un uomo “orientale” si tinge i capelli di biondo, “all’europea”. E l’uomo (non mio padre) ostenta sul petto un gran medaglione con la stella di Davide: sembra ancora arabo, ma dice al mondo «Sono ebreo». Anche allo stadio le grida di “Morte agli arabi!” sono una richiesta implicita di essere considerati “Kosher”. La Sinistra non ha saputo accettare gli ebrei orientali, la Destra ha sfruttato le loro paure.
Eppure, tu la pensi diversamente…
I laburisti del Mapai avranno fatto errori, ma hanno anche fatto cose grandiose, hanno costruito uno Stato dal nulla. Io sono una sionista patriottica, perché so quanto il sionismo sia riuscito a salvarmi da una sorte simile a quella di mia nonna. Che ne sarebbe stato di me se fossi cresciuta nella Teheran degli anni Settanta, poco prima della Rivoluzione di Khomeini? Israele mi ha dato una lunga serie di privilegi: libertà, indipendenza, libero pensiero, larghi orizzonti, opportunità.
La questione dell’identità è al centro di Borderlife. In ebraico si chiama Gader Haya, “siepe vivente”, intraducibile nelle altre 20 lingue in cui il libro è pubblicato. Perché questo titolo?
Intendevo una barriera portatile, che è con te anche quando vai nella Diaspora. Nell’ebraismo ci sono queste distinzioni: ebreo o gentile; carne o latte; kosher o impuro; seta o cotone. Un riflesso mentale del ghetto, perfino se vivi a New York. Io peraltro credo nella necessità di confini. Come si dice: un buon steccato fa un buon vicinato.
Una storia di amore fra una israeliana e un palestinese a New York… non c’era il rischio di scivolare nel kitsch?
No, perché almeno quattro dei sei anni in cui ho lavorato al libro mi sono dedicata a un vero e proprio “laboratorio di identità”. Non è stato concepito come un libro d’amore, semmai il mio tema era proprio la paura dell’amore, la paura di avvicinarsi, la paura di perdersi e annullarsi nella forza delle passioni.
Come è stato recepito fra i palestinesi?
La versione in arabo non è ancora uscita. Il traduttore è un po’ lento. Intanto il libro piace ai giovani coloni, che apprezzano il mio attaccamento a Israele, e anche a qualche palestinese della Cisgiordania che sa leggere in ebraico. Sapere che in Cisgiordania il mio libro viene oggi letto sia da coloni sia da palestinesi mi fa molto piacere. So anche che la versione inglese viene acquistata e donata a palestinesi della Cisgiordania, i quali lo leggono come un documento autentico, e quindi per loro rilevante.
In Italia le reazioni sono positive?
È davvero stupefacente l’accoglienza in Italia della letteratura israeliana. C’è una affinità di temperamenti. Chi lo sa meglio di A.B.Yehoshua? Io adoro la terra che lui calpesta! I suoi personaggi sono intellettuali, ma hanno anche temperamento. Sono inquieti, nervosi, passionali. Come una pentola sul fuoco, con qualcosa che dentro ribolle in continuazione. L’anima israeliana e quella italiana spesso si sovrappongono.
La tua Tel Aviv: dove faresti incontrare una coppia di innamorati? Dove ti portano le gambe?
Agli innamorati consiglio di incontrarsi al Gan Yaakov: quella collinetta stretta fra il teatro Habima e l’Auditorio Mann dell’Orchestra sinfonica, con il suo sicomoro centenario e il fruscio dell’acqua. Meglio se ci si arriva in una sera di aprile quando gli alberi sono in fiore e il loro profumo stordisce le api. Io ho un legame personale col tratto di spiaggia che parte dalla Torre dell’orologio di Jaffa: scendi alcuni scalini e giungi in riva al mare, al ristorante Manta Ray. È là che si svolge la parte finale di Borderlife. Infine non dimentichiamo la via Allenby, possibilmente d’estate: ma di sera, meglio se si è lievemente storditi da bevande o dal fumo. Ecco che allora si ha la vaga sensazione di essere a New Delhi, o forse a Gaza. Perché Tel Aviv non è solo eleganza. Ha anche l’aspetto di una piccola freha, di una donna trasandata. Anche nelle sue parti decadute ha uno speciale fascino. «È bellissima…», mi sussurra Dorit Rabinyan, in italiano.