di Roberto Zadik
Cinema: Talk radio è un film che parla chiaro ancora oggi
In quella sala buia, nella sua claustrofobica solitudine, il deejay sarcastico e brillante, l’ebreo Barry Champlain parla, incoronato dalle sue immancabili cuffie, davanti al microfono. È audace, è profondo e ha paura perché è solo in mezzo a tanti nemici e a tanti fan e i neonazisti lo braccano.
Era il 1988 e due anni dopo aver diretto quel favoloso “pugno allo stomaco” di Platoon, atto di accusa e di responsabilità sulle colpe americane nella sporca guerra del Vietnam, l’acclamato regista americano Oliver Silberstein, ora è più ebreo, dell’anglosassone Stone, cognome della sua fama, arrivava con questa pellicola dura, secca e bellissima. Attore principale? Uno sconosciutissimo e bravissimo Eric Bogosian, tutt’altro che ebreo, nei panni di Champlain con tanto di capello ricciuto da stereotipo e protagonista di questa trama solida e avvincente assieme ad altri attori, di contorno, ma saporiti e direi bravi.
Fra i tanti nomi, comparse e scomparsi poi dalle scene, cito Ellen Green che ironia delle ironie, interpreta la moglie del disc jockey Ellen, e un discreto Alec Baldwin nella parte dell’amico Dan. Ma come mai questo film rappresenta non solo un gran bel prodotto ma anche il più ebraico fra i film di Oliver Stone?
Nonostante il suo particolarissimo carattere e lo stile di vita sregolato, Stone che non è ebreo di religione ma qui dimostra di esserlo di sentimento, in questo film si interroga sull’antisemitismo, sul pregiudizio e sull’odio. Sulla solitudine di un ebreo minacciato di morte dai naziskin non in Polonia o in Ungheria ma nella tollerante e benpensante America patinata e spensierata della fine dei sorridenti anni 80’, l’epoca di Reagan, dei walkman e dei fast food. Questo per il buddista Stone di padre ebreo americano, un broker come il protagonista di un altro suo bel film Wall Street risulta dunque il suo film più ebraico e ritrae nella figura di Champlain ispirata alla storia del vero deejay Alan Berg, problematiche e caratteristiche di tanti ebrei americani che lottavano contro la società circostante.
L’ironia sferzante del poeta Beat Generation Allen Ginsberg, il senso di straniamento e al tempo stesso di idealismo di Bob Dylan, piuttosto che la comicità di Lenny Bruce, interpretato nel bellissimo “Lenny” di Bob Fosse da uno straordinario Dustin Hoffmann, tutto questo risuona e riecheggia in questo bellissimo Talk Radio girato con semplicità e una sceneggiatura “da urlo” firmata dallo stesso Stone, già sceneggiatore professionista ai tempi di Fuga di mezzanotte dell’amico Alan Parker. Un film e una vita stravaganti e geniali, per un regista come Oliver Stone, cineasta famoso anche per le sue discutibili interviste dove parla di “lobby ebraiche hollywoodiane” e gira documentari su dittatori come “Chavez” o Fidel Castro e poi stupisce e commuove ancora oggi con Platoon e Talk Radio. Contraddittorio e versatile, patriottico come in Nato il 4 luglio, Nixon o JFK, ebraico come in questo film e antiamericano o antisionista e forse anche a volte antisemita in qualche intervista bislacca, Stone è complesso e stravagante come tanti grandi talenti. E per questo mi turba e mi affascina.