Lilmod velelamed: educare ebraicamente

Ebraismo

di Esterina Dana e Francesca Olga Hasbani

Appunti di pedagogia ebraica: colui che insegna deve essere anche in grado di imparare dal rapporto con i propri allievi. Perché si conosce insegnando, si impara trasmettendo, si capisce spiegando. Senza dimenticare che nell’ebraismo è sempre l’azione che fonda il pensiero e mai viceversa.

Un padre cammina per strade tortuose piene di inciampi e pericoli. Porta sulle spalle il suo piccolo figlio, facendogli così superare senza pericolo gli ostacoli che incontra. All’improvviso, un cancello davanti a lui. È chiuso e, nonostante gli sforzi, non riesce ad aprirlo. Il piccolo scende dalle protettive spalle del padre e supera il cancello passando attraverso una feritoia. Da lì lo apre e fa passare il padre dall’altra parte. È il Midrash che conclude il racconto per immagini della vita di David Schaumann fatta dal figlio Dani, domenica 13 febbraio, al Tempio di via Guastalla, durante la Giornata di studi organizzata dalla Comunità ebraica di Milano in collaborazione con il Rabbinato centrale e il Progetto Kesher, in occasione del centenario della nascita di Rav David Schaumann z”l. A fare gli onori di casa rav Alfonso Arbib davanti ad un folto consesso pieno di nostalgia. Tra i presenti Roberto Jarach, che ne rievoca la figura di educatore e ispiratore di cultura ebraica e di ideali sionisti, e Arturo Calosso, che ne ricorda l’attività di rabbino di Genova e l’insegnamento maieutico. Il tema della giornata, simbolicamente introdotto dal Midrash, è: L’educazione (ebraica). Lo sviluppa rav Arbib, ponendo due problemi essenziali nell’ambito dell’educazione: la definizione di scuola ebraica e l’individuazione del metodo di insegnamento dei valori ebraici. Le prime scuole vengono fondate, ad opera di Jehoshua Ben Gamla, all’epoca degli Asmonei per sopperire al fenomeno di assimilazione di massa verificatosi nonostante la vittoria sul tentativo di annientamento culturale e spirituale dell’ebraismo; “fino a quel momento chi aveva un padre poteva imparare Torà, chi non l’aveva non lo poteva fare”, così nel Talmud.

Una catena di generazioni

Il grande pensatore del Novecento Itzhak Hutner, commentando il passo in una conferenza sull’educazione, sottolinea che il modello di insegnamento originario è quello della trasmissione attraverso la catena familiare: di padre in figlio. Se un anello della catena si rompe, però, il modello educativo sparisce.

Quindi, nell’iniziativa di Ben Gamla è insito il valore di una takkanà (riparazione): la scuola e il suo modello educativo integrano quello della trasmissione di valori esistenziali e spirituali di padre in figlio. In un passo della Parashà di Nitzavim si legge: “Oggi siete qui presenti;  … chi è con noi qui oggi e chi non è con noi”; si tratta di un Matan Torà leneshamot, di un patto stabilito con le persone fisicamente presenti e con le anime del popolo ebraico. Il valore della scuola è fondamentale nell’educazione ebraica perché fa appello al patto con le anime. Compito dell’insegnante è risvegliare la Torà che è, si presuppone, già dentro di noi, attraverso due momenti ineliminabili del processo educativo, dice Shlomo Wolbe: la costruzione e la semina. L’insegnante costruisce faticosamente un rapporto con i valori e prepara il terreno per la semina, risveglia la forza spirituale dell’allievo, attivandone le insite potenzialità. La Torà, che è Vita, emerge da questa potenzialità: “Educa il ragazzo secondo la sua strada, quando crescerà non si staccherà da essa”. Il senso dell’educazione si risolve, quindi, in un contatto di anime che può avvenire solo se l’insegnante non si limita a proporsi come professionista, ma anche come un esempio personale. L’obiettivo finale di questo modello educativo emerge da un’haftarà che riguarda l’arrivo del Mashiach: …e D-o manderà Eliahu Hanavì e porterà “il cuore dei padri sui figli e i cuori dei figli sui padri”. È l’immagine di un’armonia ricostituita “attraverso i figli” (nota Rashì), che “aprono il cancello” e fanno entrare i padri. Quando la catena padre-figlio si spezza, l’insegnamento prosegue nelle scuole; a loro la responsabilità etica di risvegliare l’anima ebraica nei figli, perché possano ricomporre l’armonia spezzata e consentire quindi l’arrivo del Mashiach.

I figli costruiscono il futuro di tutti

“E saranno queste parole che io ti comando oggi sul tuo cuore; le ripeterai ai tuoi figli e ne parlerai stando nella tua casa e camminando per la via, quando ti coricherai e quando ti alzerai” (Devarìm 6:6-7). Così ogni ebreo recita e ricorda, due volte al giorno pronunciando lo Shemà Israel.

Del modo in cui “ripetere ai figli” questi insegnamenti si è parlato alla scuola ebraica della Comunità, il 9 febbraio. L’occasione: la presentazione di un libro, La mia Torà, le parashot di Bereshit, realizzato dal dipartimento Educazione dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane. A presiedere, oltre a rav Roberto della Rocca, c’erano il il Rabbino capo Rav Alfonso Arbib, Odelia Liberanome del Dec, Sonia Brunetti, rav Yechiel Wasserman, Anna Coen e Mirna Dell’Ariccia. Come rileva il Consigliere UCEI Raffaele Turiel, “questo libro nasce come strumento didattico per tutte le Scuole ebraiche d’Italia, soprattutto per quei ragazzi la cui Comunità non offre un istituto educativo”.

Ma che cos’è l’educazione ebraica, in che cosa si sostanzia la sua specificità? Innanzi tutto in un concetto: “Lilmod ve lelamed”. I due verbi, studiare e insegnare non sono solo complementari, ma inscindibili e legati dalla stessa radice semantica: non si può insegnare se non si è allo stesso tempo disposti a studiare, ad imparare, sia dai propri allievi sia dai propri figli, a scuola come a casa. Perché l’insegnamento e l’apprendimento si svolgono in due “luoghi” (non solo fisici) deputati a questo: la scuola e la famiglia. Piu sottilmente, l’espressione “Lilmod ve lelamed” ci parla della reciprocità, e ci dice che nell’atto stesso di insegnare è insito l’apprendere a nostra volta non solo dai libri ma anche da coloro a cui si trasmette la conoscenza e dalla dialettica che si instaura tra i due poli: genitore-figlio, maestro-allievo. Non a caso la metafora ricorrente dell’educare ebraicamente è quella dell’albero, le fronde vigorose lanciate verso il cielo, le radici ben piantate nella terra, nella doppia tensione tra il divino e l’umano. “Un albero di vita è la sapienza per chi ad essa si attiene”, ci ripetono da sempre i Proverbi 3, 18.

Ma facciamo un po’ di storia. Nel Ventesimo secolo, la famiglia ebraica assume una struttura particolarmente eterogenea, assecondando i nuovi assetti sociali e i cambiamenti in atto nei diversi Paesi di residenza. Muta la struttura della famiglia ebraica, le sue ambizioni culturali e di visibilità sociale, il livello d’acculturazione. Sul piano storico, si descrive il nucleo familiare ebraico contemporaneo come una piccola unità domestica, caratterizzata da forti legami affettivi al suo interno e una sottile barriera fra se stessa e la società circostante.

Nell’ebraismo, l’intero pensiero sulla famiglia ruota attorno a concetti pedagogici riguardanti l’educazione dei figli. La trasmissione delle conoscenze dei genitori alla prole è il fondamento stesso della famiglia ebraica e garanzia per la continuità dell’identità di ogni ebreo e dell’intera comunità. “Figli” in ebraico si traduce con “banim” da cui deriva il termine “bonim”, i costruttori. I figli permettono la costruzione della comunità e da essi dipende il suo futuro. I Saggi del tradizionale pensiero ebraico sono concordi nell’affermare che lo scopo principale di genitori e maestri consiste nel trasmettere fondamentali valori universali, guidando i giovani nella distinzione fra il Bene e il Male come pure tra le diverse sfere della vita. L’educazione da impartire ai figli deve essere integrale, completa. Deve comprendere un’ampia cultura, estesa a diversi ambiti della conoscenza, con lo scopo principale della civilizzazione. Deve mirare a realizzare l’uomo nella sua più totale completezza, tramite insegnamenti e argomentazioni riguardanti i diversi ambiti della personalità.

L’abitudine al bene

Le considerazioni si susseguono nelle parole dei relatori. La Torà insegna che la disciplina è una parte essenziale dell’educazione, perché modella la giusta attitudine comportamentale. Senza disciplina non c’è direzione, non è possibile “guidare” il giovane lungo la retta via. “Disciplina” proviene da “discepolo”. Se ne ricava quindi un importante concetto pedagogico: non è possibile forzare un discepolo all’apprendimento di una qualunque nozione, perché si può imparare davvero solo se lo si desidera. Allo stesso modo la vera disciplina deve scaturire dal desiderio di farsi guidare. La pedagogia ebraica paragona la relazione genitore-figlio a quella maestro-discepolo. L’essere un buon genitore o un buon maestro è uno scopo a cui l’uomo deve tendere tutta la vita, al fine di diventare modello per ogni giovane ebreo.

Ogni insegnamento deve essere adeguato all’età e al livello di comprensione prima del bambino, poi del ragazzo. Un capitolo a parte è lo studio della Torà. Che significa, per un ebreo, essere costantemente a contatto con il proprio passato, le proprie origini, la propria storia, ma anche la propria cultura e identità. Nella Torà c’è il mondo intero; vi sono illustrate diverse tradizioni, vi compaiono differenti popoli ma soprattutto si fanno continui riferimenti a valori universali. Così ogni allievo vi si può immedesimare.

Lo studio della Torà

Lo studio viene sviluppato attraverso l’apprendimento dei Commenti, relativi a specifici brani della Torà, che evidenziano i numerosi aspetti positivi di bontà e tzedakà trasmessi dal Testo; lo studio quindi non solo avvicina al divino ma ne permette la comprensione. Ma c’è di più: lo studio della Torà crea un profondo legame tra le generazioni, poiché vi è tenuto il giovane quanto l’anziano. Diventa così un patrimonio comune che si trasmette di padre in figlio, dai nonni ai nipoti.

I tempi, però, cambiano e i giovani hanno continuamente bisogno di essere attratti da strumenti interessanti e nuovi, anche per affrontare lo studio dei testi più antichi del mondo, sottolineano i relatori. Per avvicinare quindi anche i più giovani alla Torà e ai suoi insegnamenti, e contribuire alla crescita di nuovi ebrei consapevoli, è necessario fornire loro strumenti adeguati all’apprendimento.

È il caso di questo volume, La mia Torà, le parashot di Bereshit, realizzato come si è detto dal DEC dell’UCEI, che rientra proprio tra questi strumenti fondamentali per tramandare nel tempo i valori del popolo ebraico. Un progetto sicuramente importante. Odelia Liberanome, direttrice del centro pedagogico del DEC, nonché coordinatrice generale assieme a Sonia Brunetti di questo libro, spiega come esso sia il risultato di un lungo percorso, ove lo scopo è sempre stato quello di realizzare un volume vero e proprio, pensato per facilitare sia l’insegnamento sia l’apprendimento e lo stimolo delle capacità intellettuali dei più giovani.

Rav Alfonso Arbib, Rabbino Capo di Milano, evidenzia come un bravo maestro è colui che sa eclissarsi dinnanzi all’allievo, che sa concedergli l’autonomia di pensiero, e proprio per questo conservare in sé la capacità, a propria volta, di comprendere la vera essenza di ogni dottrina.

La mia Torà è stato strutturato proprio per indurre ogni piccolo lettore, attraverso qualche sforzo, a studiare e capire a fondo, con buona indipendenza, la Torà, i suoi principi e i valori universali che la permeano.

“Nel Talmud”, aggiunge rav Roberto Della Rocca, “si racconta che l’origine della fossetta, che tutti abbiamo sopra il labbro, risale al momento nella nostra nascita. Un angelo dà un colpetto al bimbo che sta nascendo, proprio sulla bocca, per fargli dimenticare tutta la conoscenza della Torà, che aveva acquisito sino al momento di uscire dal grembo materno”. Questo Midrash sta a significare che se da un lato la Torà è innata in ogni uomo, dall’altro, quotidianamente, ogni ebreo deve fare uno sforzo per riacquistare il patrimonio di conoscenza perduto. Perché senza volontà, studio e impegno personale non ci può essere vera conoscenza.

Il volume, come spiegano le autrici Anna Coen e Mirna Dell’Ariccia, due persone di grande esperienza nell’ambito della didattica ebraica, propone ai ragazzi la lettura del testo biblico, con un adattamento estremamente fedele al Testo originale. Tramite il metodo dell’ipertesto, sono state inserite note, chiarimenti, glosse e approfondimenti tratti dai commenti dei Maestri, dalle interpretazioni dei Saggi e dalla letteratura midrashica, che invitano alla rilettura, alla rielaborazione e all’interpretazione personale della Torà. Un metodo di studio tipico dell’educazione ebraica, che così può essere appreso fin da piccoli.

Come ricorda rav Yechiel Wasserman, direttore della World Zionist Organization – Center for Religious Affairs in the Diaspora, che ha contribuito alla prima stampa di questo volume, nel corso di tutte le generazioni, l’educazione ebraica è sempre stata posta al vertice delle priorità del popolo che, di luogo in luogo, si è adoperato per mantenere vivo l’imperativo di tramandare la tradizione.

Durante il Novecento, irrefrenabilmente, l’emancipazione e l’assimilazione hanno posto l’identità, e dunque l’esistenza della collettività ebraica, a dura prova. Il rafforzamento delle strutture e dei progetti educativi, di cui la realizzazione di questo libro è un esempio, è la sola cosa che possa fronteggiare i cambiamenti cui la società contemporanea sta sottoponendo l’ebraismo mondiale.