di Roberto Zadik
Davvero italiani brava gente? Provate un po’ a dirlo alle genti dell’arcipelago croato. Molti ancor oggi vi guarderanno malissimo. Per chi va in vacanza nell’isola di Rab, viene difficile immaginare, dietro quel mare blu, dietro quelle spiaggette di sassolini e le antiche pietre del centro storico, il lager italiano che internò la popolazione, e ricordare che proprio qui si consumò uno dei capitoli neri dell’occupazione fascista italiana. Dal 1941 al 1943 le truppe italiane fasciste commisero, come esercito d’occupazione nei territori della Jugoslavia, efferatezze inaudite, decimando progressivamente la popolazione slovena e invadendo tutto il territorio circostante. Dapprima la Germania nazista e poi l’Italia di Benito Mussolini invasero la Croazia per poi estendersi alla vicina Slovenia che a sud, nelle vicinanze di Lubiana, venne assediata dalle Camice Nere. Finora poco si è parlato delle atrocità compiute dall’esercito italiano fascista, contro il quale si ribellò l’OF, Fronte di Liberazione sloveno, e ancor meno si sapeva delle deportazioni che cominciarono nel 1942.
Fu così che croati, sloveni e successivamente, dal 29 maggio 1943, anche gli ebrei, vennero internati sull’isola di Rab, Arbe in croato. Gli ebrei in particolare ebbero poi un ruolo fondamentale nella rivolta del campo e nella lotta armata per la liberazione di buona parte della Slovenia e della Croazia. Infatti, malgrado vivessero completamente isolati dagli altri prigionieri, parteciparono attivamente alla formazione della Rabska Brigada, il nucleo di combattenti clandestini che riuscirono a ribellarsi alla detenzione a volte in modo eroico.
Dedicate al loro ingegno e alla capacità di resistere e non mollare con la volontà, nemmeno nei momenti più dolorosi, le pagine del libro di Anton Vratusa Dalle catene alla libertà (pp 166, edizioni Kappa Vu, 18 euro,) ricostruiscono magistralmente tutta l’intensità e l’angoscia di quei momenti. La narrazione si sofferma sul dolore, la fame, la sete, gli stermini di massa, le fucilazioni di donne e bambini, per arrivare alla rivincita degli ebrei e degli altri prigionieri contro i loro stessi oppressori. Gli internati dell’isola di Rab vennero aiutati dalle truppe alleate, dal Partito Comunista sloveno e dall’OF, partito clandestino antifascista, i cui membri si unirono agli ebrei nella lotta comune contro i fascisti. Le condizioni della detenzione nel lager italiano nell’isola di Rab erano durissime: gli uomini venivano separati dalle donne, le famiglie smembrate e i bambini potevano parlare coi genitori solo attraverso il filo spinato. A capo delle operazioni di deportazione e internamento c’era il comandante Mario Robotti: testimonianze raccolte dall’autore riferiscono come passasse il tempo a gridare “Qui si ammazza troppo poco!”, giusto per rendere l’idea del clima di terrore che vi si respirava.
Molti furono i motivi per la scelta di quell’isola per la costruzione del campo, primo fra tutti la difficoltà di evadere e di mantenere i collegamenti con la terraferma. A Rab, secondo la testimonianza padre Odorico Badurina, che si trovava all’epoca nel convento di Kampor sull’isola, “gli italiani volevano distruggere gli internati con la fame”.
Tutto questo viene descritto con un buon equilibrio, fra partecipazione emotiva e lucidità storica, dall’autore Anton Vratusa, sloveno classe 1915, a suo tempo nominato vice comandante della Rabska Brigata (la brigata di Rab). Come dice l’autore, Rab era un luogo che “instillava nei prigionieri una sensazione di impotenza e rendeva più profonda la loro disperazione”. Gli internati subivano quotidianamente umiliazioni e torture, secondo gli ordini del glaciale Vincenzo Cuiuli, comandante del campo di concentramento, tenente colonnello dei Carabinieri Reali. L’uomo “è rimasto nella memoria degli internati come un mostro dalle sembianze umane”. Un personaggio tremendo che “aveva una natura sadica ed era contemporaneamente un fascista fanatico”. La descrizione del personaggio prosegue: “portava sempre una frusta che utilizzava molto volentieri”. L’odio verso Cuiuli fu uno degli elementi di profonda coesione nei membri della brigata, altrimenti diversi per molti fattori, caratteriali, culturali, religiosi e sociali. Tra i membri della Rabska brigada c’erano contadini, artigiani, pochi laureati o intellettuali, persone di fede cattolica e di religione ebraica.
Gli ebrei nel campo
Proprio riguardo alla presenza ebraica nel campo, l’autore racconta che nel 1943 i fascisti italiani deportarono a Rab il primo gruppo di famiglie ebraiche, provenienti soprattutto da Sarajevo. Molti degli ebrei che erano riusciti miracolosamente a sfuggire alle retate naziste nei territori jugoslavi, vennero catturati dai fascisti italiani; portati a Rab, una volta nel campo, vennero isolati. Tuttavia godevano di una sorta di protezione, rispetto agli altri detenuti: potevano utilizzare la biblioteca e ascoltare la radio. Secondo l’autore “gli internati avevano bisogno l’uno dell’altro e la freschezza e ricchezza di informazioni cui gli ebrei potevano accedere grazie a questi ‘privilegi’, era un sostegno morale per tutti i prigionieri”. Come ricorda lo storico Jasa Romano “al comitato di settore ebraico si riuscì di stabilire una stretta collaborazione col comitato di settore sloveno. Il comitato preparò un progetto di liberazione del campo; a tal fine venne creata nell’ambito del comitato unitario una sezione militare. Era attiva anche una stamperia clandestina ebraica in cui si realizzavano bollettini e notiziari; in questo modo gli internati erano aggiornati sulla situazione”.
Così si formò la Rabska Brigada e gli ebrei parteciparono a numerosi combattimenti. Erano inseriti nel quinto battaglione, e nonostante l’inesperienza come partigiani o soldati, lottarono con coraggio e determinazione. Si unirono agli altri e comunicarono fra di loro e all’esterno grazie a una rete di contatti e di informazioni che i prigionieri si scambiavano incessantemente, con i vari comitati di liberazione dentro e fuori dal campo. I fascisti non riuscirono a fermare in tempo i piani dei comitati e dei prigionieri. Dall’estate del 1943 le circostanze cambiarono rapidamente. Il 10 luglio infatti l’esercito angloamericano cominciò il suo sbarco in Sicilia e il sistema difensivo dell’Asse iniziò a perdere terreno. Inoltre il 25 di luglio, Mussolini subì una duplice sconfitta. Prima venne sfiduciato dal Gran Consiglio del Fascismo e poi destituito dal re Vittorio Emanuele che nominò nuovo capo del governo Pietro Badoglio. Anche i soldati di Cuiuli, dopo la caduta di Mussolini, cambiarono atteggiamento verso gli internati. Finalmente arrivò l’8 settembre 1943 e il Regno d’Italia cessò il fuoco contro gli Alleati. L’Armistizio cambiò, anche se gradualmente, la situazione del lager di Rab. Nei giorni immediatamente successivi c’era una calma surreale, ma progetti e aspettative ribollivano dietro le apparenze. Il comandante Cuiuli subiva la confusione del momento: la sua indole lo portava alla consueta durezza, ma avvertiva che qualcosa stava cambiando e arrivò ad ammettere “ora siamo tutti uguali. L’Italia è passata dalla parte degli Alleati”. Assieme alla Rabska Brigada, i membri dell’OF proclamarono, il 10 settembre, la presa del potere popolare nel campo e al grido di “morte al fascismo! Libertà al popolo” disarmarono le Camicie Nere. Fra il 12 e il 13 settembre 1943 il campo era stato liberato ma sulla costa dominavano ancora gli Ustasha, forze militari croate alleate dei nazisti. La Rabska Brigada e l’OF diventarono una brigata partigiana sloveno-croato-ebraica. Approfittando delle circostanze favorevoli e rimanendo unita, catturò Vincenzo Cuiuli, che si suicidò nella notte fra il 17 e il 18 settembre. Poi la Brigata partì alla volta della battaglia per la liberazione della Jugoslavia, unendosi ai movimenti partigiani delle varie città, disarmando i fascisti nell’isola di Cres e lottando contro i nazisti e gli Ustasha in tutto il territorio.