di Mino Chamla
Quando venne istituito il Giorno della Memoria (in Italia nel 2000, dall’ONU nel 2005 e altrove in altre date), si poté considerarlo come il punto d’arrivo d’una presa di coscienza dell’opinione pubblica mondiale, e specialmente di quella europea e occidentale. A più di cinquant’anni (!) dalla fine della guerra si riconosceva la specificità – dal lato delle vittime: il popolo ebraico -, di quello che Churchill già immediatamente aveva definito “probabilmente il più grande e il più orribile crimine mai commesso nell’intera storia del mondo”.
In realtà, si trattava di qualcosa ch’era iniziato qualche decennio prima, quando, a partire dagli anni Settanta (ma forse dal 1961 e dal processo Eichmann in Israele), il dibattito storiografico e la rappresentazione attraverso la letteratura, il cinema…, avevano conosciuto un’impennata straordinaria, come se davvero fosse finalmente insorta, dopo lunga maturazione, una nuova consapevolezza, uno sguardo sullo sterminio degli ebrei che riusciva a staccarlo dallo sfondo, a stagliarlo e illuminarlo di luce propria rispetto alle complessive vicende della Seconda Guerra Mondiale.
Certo, erano stati in particolar modo gli ebrei che non soltanto si erano già dati un loro “Giorno della Memoria” tra il 1953 e il 1959 (Yom ha-Shoah), ma soprattutto avevano già da un pezzo rielaborato in profondità la loro memoria ed anzi il loro vissuto, individuale e collettivo, dell’Evento; nel frattempo, era la coscienza pubblica “generale” ad essere maturata abbastanza da invocare una giornata memoriale che fosse significativa e parlasse a tutti e soprattutto alle nuove generazioni. Naturalmente, gli ebrei non potevano che vedere con favore tutto quel lavorio, che pareva davvero annunciare piena giustizia storica e, per il presente e il futuro, nuova consapevolezza e nuovo rispetto nei loro confronti. Mentre erano da considerarsi fisiologiche e un po’ scontate, finché minoritarie, le voci dissonanti di chi accusava la parte ebraica di vittimismo esagerato, esclusivismo e magari anche utilizzo improprio della memoria storica per giustificare l’esistenza e tutta l’azione nel presente dello Stato d’Israele.
In realtà, al di là del richiamare alla memoria, appunto, quel ch’è stato, quali potevano essere le finalità più profonde e radicali nell’istituire una ricorrenza del genere? Il Giorno della Memoria doveva senza dubbio testimoniare del significato universale di quanto accaduto al popolo ebraico (ma anche ad altri, beninteso, e soprattutto agli zingari), durante la Seconda Guerra Mondiale e far riflettere, contemporaneamente, sulla inaggirabile questione del: “perché gli ebrei?”. In effetti, i nazisti tedeschi e i loro complici vollero certo annientare l’uomo che era nell’ebreo, ma forse ancor più l’ebreo che è in ogni uomo, e cioè la forza superbamente umana, e davvero “universale”, della differenza, dell’individualità e della libera identità. Poiché è questa la vera, profonda universalità della condizione ebraica, quella che alla fine provoca l’antisemita e il “fascista” di ogni tempo e che spiega, tra l’altro, la radicalità e l’unicità della Shoah.
Ancora: com’è ormai consapevolezza diffusa, una Giornata della Memoria aveva la funzione primaria di far riflettere la collettività nazionale dei diversi Paesi su quelle che erano state anche le proprie responsabilità, traendone il massimo di coscienza storico-politica per il presente e per il futuro.
Infine, e più in generale: la memoria non poteva che rimandare continuamente alla Storia ricostruita sempre meglio e sempre più in profondità. Anche perché soltanto una Storia così intesa avrebbe permesso di riconoscere le responsabilità e di riflettere sui rapporti tra passato e presente. Laddove la pura memoria corre il rischio di trasformarsi in un’inerte e sentimentale contemplazione del male. Ora, sappiamo tutti come quelle aspettative nei confronti del Giorno della Memoria siano andate, nel tempo, – e forse non poteva essere altrimenti- , largamente disattese e deluse. Molti, ebrei e non ebrei, non possono che prendere atto delle derive di una memoria così spesso istituzionalizzata, banalizzata, ritualizzata, rappresentata e celebrata nella pura ripetizione. Dove persino la ricorrente e giusta osservazione che la memoria non possa essere coltivata soltanto un giorno all’anno ma debba esserlo sempre, tutti i giorni dell’anno, è diventata una banale ovvietà, di quelle che rinviano soltanto la risposta che si deve dare a un problema senza averne compreso il significato reale.
Proprio la figura del testimone, senza dubbio quella al centro di tutti i processi storico-memoriali che si sono richiamati sin qui, riassume in sé molte delle difficoltà e delle problematiche cui ci troviamo di fronte. Non soltanto perché la sua era, epoca, secondo l’espressione ormai celebre di Annette Wiewiorka, volgerebbe ormai al termine. E, a ben vedere, anche il topos del “dopo l’ultimo testimone” sembra ormai portare in sé una consapevolezza estrema e terribile: dopo, quando non ci saranno più, perderemo certo tutto il senso autentico e la forza del loro racconto. Ma allora: a cosa sarà mai servito che essi parlassero, in quel determinato momento e non un attimo prima o dopo? Dove evidentemente ci si confonde tra valore assoluto della testimonianza, una volta emersa, e sua “ripetibilità”. Ma soprattutto (come da più parti è stato sostenuto), il testimone troppo spesso rischia di essere trasformato nell’oggetto di un culto civile, e molto mediatico, cui non corrisponde sempre, nel pubblico, e in particolare in quello giovanile, un’effettiva e stabile crescita della coscienza storico-politica. In altre parole: mi commuovo di fronte al racconto del sopravvissuto, ma non declino poi quella commozione in reale sensibilità verso vecchie e nuove vittime di ingiustizie e soprusi, né tantomeno, – ed è la cosa più importante -, in indignazione per le motivazioni di quelle ingiustizie. D’altra parte, e in generale: perché non ammettere che il “mai più!”, gridato da noi con tanta fierezza specialmente nelle occasioni celebrative ed ufficiali, si accompagna praticamente sempre all’impotenza, se non addirittura all’indifferenza, verso quel che capita ora, in questo preciso istante, ad altri, nel mondo?
Mentre, per contro, si è assistito e si continua ad assistere alla sempre crescente banalizzazione delle parole e dei concetti, con qualunque cosa che diventa comparabile, in qualche misura, con la Shoah, ed anzi diventa proprio “come la Shoah”. Senza contare quello che massimamente, e a ragione, indigna soprattutto la parte ebraica, e cioè la tentazione di molti ad onorare gli ebrei morti e oltraggiare invece quelli vivi, contrapponendo con facilità l’ebreo buono e vittima inerme di ieri a quello aggressivo e colpevole, oltreché “armato”, di oggi.
Ancora: cosa può il Giorno della Memoria di fronte alla crisi del nostro tempo, non solo economico-sociale ma anche etico-politica e valoriale, che non solo conferma la ripetibilità del male, ma persino una ripetizione puntuale di quel male, o almeno dei suoi presupposti fondamentali, e dunque l’antisemitismo, e il negazionismo, e le mille altre cose orribili che puntualmente rialzano oggi la testa, e con tanto maggior vigore nella società della “comunicazione globale”?
Eppure, nonostante tutto quel che si è detto, la “memoria”, e persino quella più ufficiale e retorica, mantiene il suo carattere di necessità, appunto perché ciò di cui stiamo parlando, nella sua realtà storica ma anche nella sua proiezione verso il presente e verso il futuro, è cosa che oltrepassa ogni nostra possibile strategia esistenziale e anche politica. E nessuno si offenda se proprio gli ebrei sembrino qualche volta mantenere, verso il Giorno della Memoria, un atteggiamento cauto e un po’ distaccato, come da ospiti d’onore alquanto riluttanti. In realtà, è un atteggiamento che dovrebbero mantenere tutti, in questa materia. Poiché proprio non si può, in nessun modo, rispetto ad essa, uscire d’obbligo. Ovvero che, rispetto alla Shoah, non potremo mai cavarcela a buon mercato, e tantomeno, con “una memoria per forza, una memoria che obbliga la gente a partecipare”.
Mino Chamla (Marsiglia, 1957) è laureato e addottorato in filosofia. Insegna presso le Scuole della CEM. Si è occupato di filosofia morale; Spinoza; il pensiero ebraico contemporaneo; storia ebraica; i rapporti tra Ebraismo e cinema… È autore di numerose pubblicazioni, tra cui: “Spinoza e il concetto della tradizione ebraica (1996); “Ebrei e redenzione, da Spinoza a Rosenzweig” in: “Franz Rosenzweig. Ritornare alle fonti, ripensare la vita”, 2012; “Di uomini, anche ebrei, e di animali”, in: “Gli animali e la sofferenza” (“La Rassegna Mensile di Israel”) 2013.