di di Rav Alberto Moshe Somekh
È tuttora visitabile a Verona il giardino di Villa Giusti. Rievochiamolo nelle parole di Rav Chayim Y. David Azulay che così lo descrive nel suo diario di viaggio Ma’agal Tov: “Il 7 Elul [22 Agosto 1776], giovedì, mi recai… ai giardini del governatore cittadino Conte Giusti per portargli una lettera… La parte alta è sulla collina e l’altra estremità degrada a valle lungo il pendio con scalinate. È un giardino bellissimo. C’è anche… un labirinto, in ebraico mevokhah dalla parola ‘imbroglio’: è il giardino intricato di cui scrive Rav Moshe Chayim Luzzatto nel Messillat Yesharim. In questo giardino vi sono 80 sentierini che confondono chi vi si addentra”.
Messillat Yesharim (“Il sentiero dei giusti”) è il titolo dell’opera etica del Ramchal pubblicata ad Amsterdam nel 1740. Nel 3° capitolo “sugli elementi della vigilanza”, egli paragona chi ha il dominio delle proprie inclinazioni-pulsioni rispetto a chi non ce l’ha. “A cosa è simile tutto ciò? A un labirinto di quelli costruiti dai nobili per divertirsi. In tali giardini gli alberi sono disposti come pareti tra le quali scorrono molti sentieri che si intersecano e confondono, tutti simili l’un l’altro. Il loro scopo è condurre a un’esedra che sta al centro del giardino. Tuttavia, mentre alcuni di questi sentieri sono diritti e conducono davvero all’esedra, altri inducendo in errore allontanano da essa. Certo, chi cammina tra i sentieri non è in grado di vedere o sapere se si trova davvero sul sentiero giusto o su uno falso, perché tutti si somigliano e non v’è differenza tra di essi per chi li guarda. Solo se conoscesse per esperienza e consuetudine l’intrico dei sentieri, già percorsi in precedenza, chi cammina raggiungerebbe lo scopo, ovvero l’esedra. Colui poi che avesse già raggiunto l’esedra, stando in mezzo vedrebbe tutti i sentieri dinanzi a sé e distinguerebbe tra quelli giusti e quelli falsi e potrebbe mettere in guardia coloro che vi camminano, dicendo: ecco la via giusta da prendere! Chi vorrà credergli raggiungerà il luogo designato. Ma chi non vorrà credergli, inseguendo solo ciò che suggeriscono i suoi occhi, certamente si perderà e non raggiungerà la meta” (trad. M. Giuliani, Cinisello Balsamo, 2000, p. 54).
Abbiamo riportato questa pagina integralmente per la sua straordinaria levatura letteraria, oltre che spirituale. Ramchal, il grande talmudista, moralista e qabbalista nato nel 1707 in un’agiata famiglia padovana, è oggi giudicato uno dei protagonisti assoluti del rinnovamento del pensiero ebraico agli albori dell’età moderna, ancorché ebbe vita assai breve e travagliata: fatto che peraltro non gli impedì di lasciarci numerosi scritti. Pochi decenni prima, l’Europa ebraica era stata sconvolta dallo pseudo-Messia Shabbetay Tzevì che aveva attratto discepoli da ogni dove, salvo poi sconfessare se stesso nel momento in cui, minacciato dal Sultano a Costantinopoli, optò per una conversione all’Islam (1666). In Italia il movimento godette di una notevole circolazione di idee grazie alla propaganda del suo discepolo Natan di Gaza. Dottissimi rabbini, capi dei circoli cabalistici locali, sostennero segretamente il movimento, almeno in un primo momento. Rav Shemuel Abohab e Rav Moshe Zaccuto furono fra coloro che interrogarono Natan allorché giunse a Venezia nel 1668. Questi ammise pubblicamente di aver commesso un grave errore di valutazione nei confronti di Shabbetay, senza intendere con ciò ribellarsi alla tradizione. La confessione fu accolta e l’influenza personale di Natan declinò: ma non le idee sabbatiane che anzi fecero discutere a lungo. Fra gli strenui oppositori va annoverato Rav Moshe Hagiz (1672-1731) di Gerusalemme. Carattere turbolento, Hagiz girò l’Europa, Italia compresa, alla ricerca di fondi per la Yeshivah di Eretz Israel. Intorno al 1730, Hagiz si volse anche contro Ramchal, che a Padova aveva riunito a sua volta un circolo di persone le quali, venerandolo come il loro maestro e capo, seguivano un suo programma di studi, preghiere e riti con aspetti esoterici. Luzzatto fu accusato di sabbatianesimo. Giunto a conoscenza di certe idee che circolavano a Padova per la rivelazione di un discepolo di Luzzatto stesso, Hagiz si rivolse ai Rabbini veneziani perché condannassero i qabbalisti padovani come nemici di Israele. Dopo lunghe vicende Luzzatto firmava un documento di ritrattazione e dovette impegnarsi a non insegnare più Qabbalah, mentre le sue pubblicazioni furono messe sotto chiave. Non finì qui: Ramchal venne scomunicato dal Rabbinato della Serenissima nel 1732 e dovette riparare prima ad Amsterdam, poi in Eretz Israel, dove morì nel 1746 a soli 39 anni per una pestilenza insieme a tutta la sua famiglia. Sono vere le accuse che gli furono mosse? Il mondo degli studiosi si divide tuttora fra colpevolisti e innocentisti.
Jonathan Garb, nella sua recentissima biografia in ebraico Kabbalist in the Heart of the Storm (“Un qabbalista nell’occhio del ciclone”) sospende il giudizio. La sua autodifesa non appare del tutto convincente. Soprattutto nelle testimonianze sull’attività del circolo gravano i sospetti che Ramchal stesso, fra l’altro criticato perché rimasto a lungo scapolo (e per questo chiamato ha-bachùr mi-Padova, “il signorino padovano”), aspirasse ad un ruolo messianico. “Comunque sia, è chiaro che i suoi contemporanei propesero per giudicarlo colpevole” (p. 171).
La sua figura e i suoi scritti furono completamente dimenticati in Italia, compreso il Messillat Yesharim, che ebbe invece una ben diversa fortuna nel mondo delle Yeshivot ashkenazite. Giocò forse a suo sfavore la parziale omonimia con Shemuel David Luzzatto, il filologo e biblista dell’Ottocento che sostenne il partito razionalista. I due personaggi non vanno assolutamente confusi. La querelle fra razionalismo e misticismo in seno all’Ebraismo è di lunga data. Ramchal scrisse fra l’altro una confutazione dell’opera anticabalistica di un Rabbino veneziano del Seicento, Leon da Modena (Choqèr u-Mqubbàl). Se il più noto Messillat Yesharim può essere considerato, come si è detto, il compendio dell’etica ebraica secondo Ramchal, il Derekh ha-Shem (La via del S.), lo è certamente della “teologia”. Nella prima delle sue quattro parti egli prende le mosse dall’esistenza di D-o e dallo scopo per cui ha creato il mondo e dimostra come gli altri insegnamenti dell’Ebraismo stesso non sono che logiche conseguenze di queste premesse. Il lettore viene trasportato da un’idea all’altra finché gli si dischiude l’intera struttura del pensiero ebraico come un tutto logico. Si parla così dell’Uomo e della sua responsabilità, del Peccato del Primo Uomo e del rapporto fra determinismo e libero arbitrio. Nella seconda parte, egli si sofferma sulla Provvidenza, sul Giudizio Divino e sulla ricompensa dell’anima, per poi passare al rapporto fra Israele e gli altri popoli. La terza parte parla della profezia e degli eventi soprannaturali, mentre la quarta si sofferma sull’importanza dello Studio della Torah, sulla Tefillah e sulle varie osservanze. Il titolo allude alle vie con cui D-o dirige noi e tutte le sue creature, ma è evidente che Ramchal intendeva gli insegnamenti “teologici” come il fondamento stesso dell’etica ebraica.
L’opera forse più originale di Ramchal può essere peraltro considerata il Da’at Tevunot (“conoscenza dell’intelletto”, da non confondersi a sua volta con il Derekh Tevunot dello stesso autore, che è invece un trattato di ermeneutica talmudica) in cui egli affronta i principi della fede ebraica, immaginando un dialogo in cui l’anima (neshamah) interroga l’intelletto (sekhel). La tesi di fondo è che D-o è buono per definizione e in quanto tale aspira solo a fare del bene agli altri: a questo scopo egli creò il mondo, “perché se non c’è chi riceve il bene, non esiste beneficio”. Ma per evitare che il ricevente debba vergognarsi del bene che riceve sotto forma di carità senza aver fatto nulla per meritarlo, D-o ha voluto che gli uomini dovessero darsi da fare per conseguirlo. Solo a condizione che non rimanesse nell’Uomo dispiacere alcuno, il beneficio può dirsi completo. Il mondo è stato perciò creato imperfetto in modo che l’Uomo, chiamato a collaborare con D-o nell’opera di riparazione (tiqqùn), giunga così a meritarsi la sua ricompensa. Così facendo D-o ha dovuto limitare il proprio potenziale creativo. Non solo. I difetti stessi, in quanto parte integrante del piano della creazione, non vanno disprezzati ma corretti. Il Male ha in questa prospettiva una finalità positiva: “la luce si distingue solo attraverso il buio”. Il tiqqùn coinciderà con il ghilluy ha-yichud (“rivelazione dell’Unità Divina”) con cui il processo giungerà a conclusione. Strumento fondamentale per arrivare a conseguire questa finalità ultima è la Torah con le Mitzwòt.
Spetta in primis all’Uomo stesso, con l’uso del libero arbitrio, portare il mondo attraverso passaggi graduali (hadragah) e con una procedura dialettica, al superamento del Male e alla perfezione. La sofferenza dell’Uomo, secondo Ramchal, non è dunque necessariamente proporzionale alle sue colpe. A volte il giusto soffre per gli errori degli altri nello sforzo di elevare il livello spirituale di coloro che lo circondano. Se infatti D-o remunerasse l’uomo solo in base alle sue azioni, Bene e Male continuerebbero a coesistere. Solo nel concedere al Male la massima forza possibile si potrà giungere infine alla sua eliminazione radicale che è lo scopo fondamentale dell’azione tanto divina che umana nel mondo.