di Davide Foa
Esiste una concezione ebraica della politica? C’è un modo specificamente ebraico di fare politica? Queste le domande con cui Rav Roberto Della Rocca apre la serata di Kesher del 17 febbraio dal titolo “ L’etica della politica e l’idea ebraica di nazione”; al suo fianco, è chiamato a dare una risposta a queste domande, il filosofo francese Shmuel Wygoda, tradotto da Ariel Finzi.
Durante il suo intervento, Wygoda si propone di ripercorrere per tre volte quanto scritto nella Meghillat Ester, testo fondamentale per la festività di Purim, che cadrà tra pochi giorni. La prima rilettura viene fatta per raccontare la storia, la seconda per evidenziare i passaggi della Meghillat che sembrano non avere un senso e infine, una terza per dimostrare il grande significato di quelli stessi passaggi.
Proprio grazie a quei dubbi e alle loro risposte, il relatore riesce a mettere a confronto due modi diversi di intendere la politica: da un lato la realpolitik rappresentata da Assuero e Amman, dall’altro la politica etica del popolo ebraico, ben interpretata da Mordechai.
Il pragmatismo politico del Re persiano è evidente sin dalle prime pagine, in riferimento alla grande festa da lui organizzata. Che senso aveva una festa tanto grande e tanto costosa?
Achashverosh non era figlio di un re, ma riesce a diventare sovrano di Persia grazie a un colpo di stato. Come fa notare Wygoda, il pericolo più grande e probabile per Assuero sarebbe stato un contro colpo di stato: ecco quindi la necessità di avere meno nemici possibili. In questo calcolo meramente politico sta la giustificazione di una festa tanto grande e apparentemente priva di significato. Secondo gli ideali della realpolitik, come spiega il filosofo “per un politico la propria posizione è più importante di qualsiasi altra cosa”.
Anche la stessa Ester inizialmente sembra legata agli ideali della realpolitik; basti leggere la sua risposta quando Mordechai la invita ad andare dal Re, in quanto regina, a chiedere l’annullamento del decreto di Amman, che mira all’eliminazione del popolo ebraico; Ester si mostra, almeno inizialmente, timorosa, consapevole del fatto che il Re potrebbe ucciderla: chiunque si rechi dal sovrano senza essere stato prima chiamato, rischia di essere ucciso. Ester ragiona per calcoli, per pragmatismo: se muore anche lei, per il popolo è la fine.
Di tutta risposta Mordechai le assicura che se non andrà dal Re la salvezza per il popolo arriverà comunque, ma lei morirà. Solo a quel punto la regina capisce la situazione e si impone un digiuno di tre giorni prima di recarsi da Achashverosh, al cui cospetto si presenta “vestita del Regno”, ovvero del regno di Israele, senza guardare alla propria bellezza esteriore, evidentemente danneggiata da un digiuno.
Mordechai è dunque il miglior esempio della politica ebraica. Egli non si inchina al passaggio di Amman, non si inchina alla realpolitik: propone un’alternativa. La sua è una politica di tipo etico che ragiona sul cosa sia giusto fare, non su cosa convenga fare.
Eppure anche Mordechai non sembra immune dai germi della realpolitik, come sottolinea Della Rocca in un commento finale. Negli ultimi tre versi della Meghillat viene detto infatti che “Mordechai era gradito alla maggior parte dei suoi fratelli”. Ma come? Perché si dice “la maggior parte” e non “tutti”? Secondo quanto spiega il Rav, riprendendo una risposta della Ghemarà, Mordechai sarebbe stato funzionale al popolo fino al momento della salvezza. Da quel momento in poi avrebbe dovuto tornare ai suoi compiti di semplice ebreo, studiare e amministrare la Torah. Insomma, anche a Mordechai sarebbe piaciuta la “poltrona” e questo suo atteggiamento non sarebbe piaciuto ad alcuni.
“Per noi ebrei – continua Della Rocca – la politica non deve essere un biglietto da visita, ma un mezzo per gestire meglio la nostra comunità”.