Rav Hayim di Volozhin: un modello di studio molto contemporaneo

Ebraismo

di Rav Alberto Moshe Somekh

L’ebraismo nella Russia ottocentesca, tra spinte all’assimilazione e volontà rabbinica di resistere

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Volozhin è una cittadina fra la Polonia e la Bielorussia. Nell’anno 1842 (Kol Nidrè 5603), Rav Itzeleh (Yitzchak) prese posto sul Dukhan per pronunciare la tradizionale Derashah. Citò il passo talmudico (Yomà 18b) in cui si narra che il Kohèn Gadòl, prima di cominciare il Servizio di Yom Kippur, veniva fatto giurare dai suoi colleghi più anziani che non avrebbe deviato di una virgola dal cerimoniale stabilito dai Maestri. Il Talmud riferisce a questo punto che il Kohèn Gadòl piangeva perché era stato sospettato di un comportamento del genere e gli anziani Kohanim piangevano a loro volta per avere sospettato di lui. Rav Itzeleh si domandò allora: se la Torah proibisce di nutrire sospetti nei confronti di chiunque, come mai i Kohanim sospettavano proprio della persona più sacra (il Kohèn Gadòl) nel luogo più sacro (il Bet ha-Miqdash) nel giorno più sacro (Yom Kippur)? E rispose: certo, è proibito sospettare di una persona finché si tratta di un individuo privato, ma se invece parliamo di una personalità pubblica che ha assunto su di sé la responsabilità di lavorare per la collettività non solo abbiamo il diritto di mettere in dubbio la sua condotta, ma abbiamo persino il dovere di esaminare le sue intenzioni che siano davvero “in Nome del Cielo”!
Che cosa aveva portato il Rosh Yeshivah di Volozhin a mutare lo stile della sua Derashah di Yom Kippur? Nella Sinagoga era presente un illustre ospite, tale Max Lilienthal, il quale stava perseguendo il programma di creare una rete di scuole ebraiche autofinanziate in Russia secondo il modello della Haskalah (“illuminismo” ebraico), che prevedevano l’incorporazione delle materie “curricolari”, in particolare la lingua e la letteratura russa, in risposta ad una sollecitazione delle autorità governative in tal senso. Il suo era probabilmente un tentativo di mediazione. Nel corso della prima metà del secolo, infatti, il governo russo aveva perseguito una politica di assimilazione forzata degli Ebrei, decretando l’abolizione delle Comunità Ebraiche (kahàl) come enti amministrativi autonomi, l’istituzione di Rabbini pagati dallo Stato (Rav mi-ta’am, letteralmente “Rabbino su commissione”) e di scuole finanziate dal medesimo. Era stata indetta una apposita conferenza rabbinica, modellata sul Sinedrio napoleonico, alla quale erano stati invitati quattro delegati del mondo ebraico: uno di essi era proprio R. Itzeleh, che difese il punto di vista dell’Ebraismo tradizionale insieme a R. Menachem Mendel Schneerson di Lubavitch.
Sia i Maskilim che i governanti si rendevano conto che la Yeshivah, con l’enfasi che essa metteva sullo studio sostanzialmente esclusivo del Talmud, costituiva il principale ostacolo alla realizzazione dei loro programmi. La Yeshivah di Volozhin era stata fondata giusto quarant’anni prima dal padre di Rav Itzeleh, Rav Chayim di Volozhin, a sua volta discepolo del Gaon di Vilna. Essa era cominciata con uno sparuto numero di discepoli, ma in breve tempo, grazie alla personale influenza del fondatore, divenne il prototipo delle grandi accademie talmudiche dell’età moderna, nell’Europa Orientale fino alla Shoah e successivamente negli Stati Uniti e in Israele: una scuola non più, come il chèder e il Talmud Torah, al servizio della sola piccola Comunità di appartenenza, ma di ampio respiro, in grado di formare intere generazioni di studiosi che portassero avanti la Torah una volta demolite le mura dei Ghetti. Le Yeshivot del nuovo tipo, collocate ormai a distanza delle grandi comunità secolarizzate e frequentate da allievi che per lo più non avevano alcun rapporto con esse, erano finanziate e amministrate in modo autonomo, realizzando di fatto una nuova forma di aggregazione sconosciuta all’ebraismo precedente. Rav Chayim, fra l’altro, raccomandò fortemente lo studio in chavruta (coppia, letteralmente “compagnia”): la dialettica e il confronto costante con il proprio compagno di studi avrebbe aiutato la corretta comprensione del testo in modo molto più approfondito di quanto non consentisse lo studio individuale.

Era l’epoca di un’altra grande controversia, questa “in Nome del Cielo” e tutta interna al mondo ortodosso polacco: quella fra i Chassidim e i Mitnagghedim. Rav Chayim divenne il leader spirituale di questi ultimi, sebbene avesse assunto un atteggiamento più moderato rispetto al suo Maestro. Nella sua opera Nefesh ha-Chayim egli sostiene che l’uomo stesso è la “anima della vita”, in quanto ha in sé le componenti di tutte le creature e con le sue forze può determinare il destino del mondo. A questo fine è necessaria una grande concentrazione non solo nell’ambito dell’azione concreta, ma anche della parola e prima ancora del pensiero. Compito dell’Ebreo, in particolare, è incanalare queste forze attraverso lo studio della Torah senza secondi fini (li-shmah, “in Nome del Cielo”!), “per osservare e mettere in pratica tutto ciò che è scritto in essa”. E “una volta che è stato chiuso il santo Talmud non dobbiamo fare altro che mettere in pratica quanto è scritto nella santa Torah sia scritta che orale, senza la pur minima deviazione” (I, 21-22). In contrapposizione rispetto ai leader del Chassidismo, che identificavano la Torah li-shmah con esperienze estatiche e teurgiche, egli insisteva dunque sullo studio analitico dei testi, finalizzato peraltro non alla discussione casuistica fine a se stessa (pilpùl), bensì alla comprensione e alla puntuale esecuzione di tutto quanto in essi prescritto.
Una tradizione afferma peraltro che da giovane Rav Chayim di Volozhin avesse studiato matematica, seguendo anche in questo il Gaon di Vilna suo Maestro: questa conoscenza, del resto, era indispensabile per comprendere a fondo alcune discussioni talmudiche, come quelle relative ai calcoli del calendario. Alcune testimonianze sulla vita della Yeshivah nel corso dell’Ottocento farebbero pensare che il Derekh Eretz (studi profani) non fosse in realtà del tutto estraneo all’ambiente, che aveva nel frattempo attratto una notevole quantità di cervelli.

Il più famoso è forse il poeta Chayim Nachman Bialik, che dedicò a questa sua esperienza diverse composizioni, anche se poi se ne distaccò. Ciò non sarebbe stato possibile senza una acquiescenza almeno parziale dei leader. Del figlio stesso di Rav Chayim, il già nominato Rav Itzeleh è riportato che avesse una preparazione secolare. Ma questo non significa che egli o alcun altro Rosh Yeshivah nella prima metà del XIX secolo abbia sostenuto le riforme del sistema educativo proposte da Lilienthal.
Come finì quella sera di Yom Kippur allorché Rav Itzeleh scese dal Dukhan? Vi sono diverse versioni dell’epilogo. Secondo una fonte Lilienthal stesso salì sul Dukhan dopo di lui: ammise di essere il bersaglio non dichiarato della Derashah del Rosh Yeshivah e affermò la propria disponibilità ad accettare qualsiasi critica alle proprie scelte. Lilienthal si diresse allora all’Aron ha-Kòdesh, ne estrasse un Sefer Torah e giurò pubblicamente che le intenzioni sue e quelle del governo russo erano rivolte soltanto al bene del popolo ebraico. Se in qualsiasi momento avesse avvertito una disposizione d’animo differente avrebbe immediatamente ritirato ogni suo appoggio. Ma secondo un’altra versione dei fatti Lilienthal si coprì la testa con il Tallet e si mise a piangere mentre Rav Itzeleh terminava la sua Derashah.
Pochi anni più tardi, dopo la morte di Rav Itzeleh, il genero di questi Rav Naftalì Tzevì Yehudah Berlin (Netziv) divenne Rosh Yeshivah (1853-1893). Furono gli anni d’oro dell’istituzione, che annoverò fra i suoi discepoli anche Rav Avraham Yitzchak ha-Kohèn Kook, futuro primo Rabbino Capo askenazita di Eretz Israel.
Ma in quegli stessi anni crebbero le pressioni da parte di elementi tanto del governo che della Haskalah a favore della “apertura” agli studi profani. Numerosi appelli furono pubblicati sui periodici ebraici dell’epoca. Benché non fosse a sua volta pregiudizialmente contrario a studi extra-talmudici, il Netziv riteneva che questi non potessero e non dovessero andare a detrimento del Talmud Torah. Una cosa era permettere la cultura secolare in quei momenti della giornata che erano “né giorno, né notte”; altra cosa era integrare formalmente questi studi nel programma ufficiale della Yeshivah. Il 22 dicembre 1891 il governo russo decretò che la Yeshivah avrebbe dovuto conformarsi ad un regolamento assai articolato. Fra le altre cose prescriveva sei ore di materie secolari al giorno e proibiva lo studio di notte. I membri dell’amministrazione e il corpo insegnante erano tenuti a saper parlare il russo e a prendersi un titolo universitario.
Era evidente al Netziv l’impossibilità di adeguarsi. Dieci settimane più tardi, il 3 febbraio 1892, la polizia irruppe nella Yeshivah e ordinò agli studenti di sgomberare l’edificio. In punto di morte (10 agosto 1893) il Netziv fece giurare al figlio Rav Chayim Berlin che non avrebbe introdotto alcun curriculum di studi profani. La Yeshivah di Volozhin chiuse i battenti pur di non sottomettersi al diktat delle autorità che avrebbero voluto cambiarne radicalmente il carattere. Ma essa è rimasta il modello di tutte le Yeshivot posteriori e la sua influenza si avverte ancora oggi, dopo oltre un secolo da quegli avvenimenti. In Se vuoi sapere (Im yesh et nafshekhà la-da’at) il poeta Bialik scrive fra l’altro: “Se vuoi sapere dove s’è conservato in tutta la sua purezza lo spirito d’Israele, che malgrado umiliazioni e insulti è rimasto onorevole oggi come nel passato, recati al Bet ha-Midrash. Il cuore ti dirà che qui si conserva l’anima della nazione”.