di Rav Alberto Moshe Somekh
Gli esuli spagnoli dopo il 1492 dovettero sviluppare assai presto un’accentuata abitudine a viaggiare. Gli Ebrei erano alla ricerca di nuove sedi. Si costituivano le Comunità di esuli iberici in Italia, Olanda, Inghilterra, Impero Turco, Nord Africa. Un gruppo, spinto dalle idee mistiche e messianiche diffusesi allora nel mondo sefardita come risposta spirituale alla catastrofe, si stabilì in Terra d’Israele, fondando centri di irradiamento religioso a Gerusalemme, dove vivevano circa 300 famiglie all’inizio del XVIII secolo, Safed, Hebron e più tardi Tiberiade. Queste Comunità, dedite per lo più allo studio dei Sacri Testi e della Qabbalah (mistica), erano sostenute economicamente dai confratelli della Diaspora, che inviavano loro offerte periodiche. Nei momenti di maggiore difficoltà erano gli stessi residenti nella Terra dei Padri a sollecitare l’aiuto degli Ebrei della Diaspora. Da Israele partivano emissari per le Comunità d’Europa allo scopo di raccogliere fondi per le Yeshivot d’Israele, dando in cambio sostegno spirituale all’Ebraismo della Golah.
Nel mondo sefardita dell’Europa Occidentale la libertà di culto ormai garantita, l’agio sociale e l’influenza dell’illuminismo razionalista avrebbero notevolmente annacquato l’assiduità nelle pratiche religiose e lo stesso sentimento nazionale ebraico, se non fossero intervenuti gli Shadarim (sigla di Sheluchè de-Rabbanan, “inviati dei Rabbini”) o Sheluchè Eretz Israel, i quali, nei loro interventi, non mancavano di ribadire agli Ebrei della Diaspora la centralità insostituibile della Terra d’Israele. La prassi dovette conoscere un forte incremento nel sec. XVIII a causa delle deteriorate condizioni degli Ebrei in Palestina. Dopo il trattato di Kuciuk Kainargi il Sultano Ahmed III (1703-1730) dovette volgere le sue preoccupazioni verso l’Europa, disinteressandosi completamente delle terre d’Oriente, che rimasero in mano dei signorotti locali. Chi ne soffrì più di tutti furono naturalmente gli Ebrei: nel 1720 fu incendiata la Sinagoga Ashkenazita di Gerusalemme (la Churvah) e la Comunità venne dispersa. Erano urgenti aiuti economici.
Il più celebre di tutti gli Shadarim fu R. Chayim Yossef David Azulay (Chidà). Per parte paterna veniva da una illustre famiglia rabbinica marocchina, mentre suo nonno materno era giunto a Gerusalemme intorno al 1700 dalla Mitteleuropa. Nato a Gerusalemme nel 1724, il suo genio si manifestò precocemente: a diciassette anni aveva già composto ben due trattati di studi talmudici. Nel 1753 fu inviato in Occidente come Shaliach della Yeshivah di Hebron: percorse, onorato ed acclamato anche da non-ebrei, l’Italia, la Germania, l’Olanda, l’Inghilterra e la Francia. In Italia partì da Livorno e si trattenne fra l’altro ad Ancona, a Ferrara, a Modena, a Mantova, a Padova, a Venezia e, di ritorno dalla Francia, a Torino. Tornato a Livorno nel 1756 ebbe un’accoglienza trionfale, entusiastica. Un mecenate locale, il medico Michael Pereyra De Leon lo ospitò nel suo palazzo per circa quindici mesi e provvide alla pubblicazione del primo frutto dei suoi studi, lo Sha’ar Yossef sul breve ma assai complesso trattato talmudico Horayyot.
Nel 1758, tornato a Gerusalemme, ottenne la posizione di Dayyan del Tribunale Rabbinico e l’ammissione nei circoli cabalistici. Nel 1772, a causa della guerra russo-turca, intraprese un nuovo viaggio alla ricerca di fondi, visitando un numero più ampio di Comunità. Si fermò qualche tempo nel Nord Africa, prima in Egitto, poi a Tunisi. Qui ricevette grandi onori dai capi della Comunità Ebraica, ma decise di proseguire per l’Italia donde passò poi in Francia, Belgio e Olanda. Si fermò alcuni mesi ad Amsterdam, dopodiché fece ritorno in Francia, trattenendosi due settimane a Parigi. Rientrò successivamente a Livorno passando attraverso Lione, la Savoia, il Piemonte, Genova e Pisa.
Terminato il viaggio, nel 1778, egli stabilì la sua dimora nella città toscana, centro di studi di rinomata importanza. Già nel Seicento operavano e insegnavano a Livorno non meno di 22 rabbini, che facevano dell’assemblea rabbinica (in ebraico Yeshivah kelalit) un imponente consesso. Dal 1740 alla fine del secolo furono attive in città non meno di nove tipografie ebraiche che attirarono a Livorno i rabbini dell’area mediterranea, desiderosi di stampare le loro opere: ne furono pubblicate 110 fra grandi e piccole. A Livorno si aggiunse a sostenere il Chidà un altro filantropo, Eli’ezer Chay Shaltiel Recanati, che istituì per lui in casa propria una Yeshivah dove potesse studiare ed insegnare. A Livorno Chidà pronunciò molte delle sue prediche: dallo studio egli non si mosse e non accettò mai la carica rabbinica della Comunità. Solo una volta all’anno, per Shabbat Shuvah, si recava in abito bianco al Tempio Maggiore, accompagnato dalla folla, per tenervi la predica solenne prima della preghiera pomeridiana. Morì a Livorno la sera di Shabbat Zakhor del 1806.
Avendo dedicato l’intera esistenza allo studio e agli scritti, la sua produzione ammonta a oltre settanta opere e abbraccia l’intero spettro del sapere ebraico, dalla Bibbia, al Talmud, alla Qabbalah e altri argomenti. Questi testi fanno di lui probabilmente il più grande Decisore sefardita posteriore alla redazione dello Shulchan ‘Arukh. Restano come testimonianza della sua poliedrica e affabile personalità i suoi diari di viaggio (Ma’agal Tov, il “Buon Viaggio”), che coprono gli anni 1753-1788. Una vena fortemente ironica pervade questi testi. L’ironia, si sa, è un classico della letteratura ebraica di ogni tempo: è lo strumento in mano allo scrittore per denigrare un personaggio che se lo merita senza scadere nel dileggio, nell’insulto e nella maldicenza, tutte espressioni proibite dalla Torah. È celebre la descrizione dell’accoglienza non proprio principesca che l’emissario ricevette a Monte S. Savino, dove nessuno gli si era fatto incontro: “Usciti dalla Sinagoga scendemmo inizialmente verso una casa nei paraggi completamente vuota. Le finestre erano aperte e faceva freddo essendo inverno. Con noi erano venuti degli uomini e allora ho detto: ‘Chi è qui il provveditore (della Comunità)’? Uno di essi mi rispose: ‘Sono io’. Gli dissi: ‘Guai alla generazione di cui tu sei il provveditore, ti sembra giusto disonorare così un emissario della Terra d’Israele, trattandolo come uno zotico? Non c’è timor di D. in questo posto!’”.
Merito del Chidà è fornirci un quadro del vissuto ebraico del suo tempo, nelle varie terre da lui attraversate, visto dall’interno. Nel corso del suo primo viaggio, passando da Trento fu multato perché sprovvisto del segno distintivo che gli Ebrei, sia pure solo in transito, dovevano portare bene in vista sull’abbigliamento. Molti anni più tardi, visitando le Comunità Ebraiche dello Stato Pontificio nel periodo del reazionario Papa Pio VI, Chidà non manca di registrare il disagio degli Ebrei nel subire i provvedimenti antisemiti riportati in auge. Nel visitare le Comunità il Chidà ci dà importanti informazioni su Rabbini e maggiorenti del suo tempo, con cui si compiaceva di indulgere in discussioni halakhiche. Inoltre, si faceva mostrare manoscritti e rare edizioni a stampa: emerge quanto la frequentazione di musei e biblioteche e la ricerca di questo genere di testi fossero la sua passione, tanto da avere una parte cospicua e significativa nella sua vastissima produzione di commentari. Nacque così lo Shem ha-Ghedolim (“Nome dei Grandi”), una recensione per autori e per titoli, in ordine alfabetico, di trecento autori Ebrei, dall’età post-talmudica al suo tempo, per oltre duemila opere.
Personalità dalla mente fervida e dalla curiosità insaziabile, era attratto dai paesaggi urbani, dai giardini zoologici, dallo sfarzo delle corti. A Parigi si intrattiene su questioni scientifiche con i professori della Sorbona e durante il secondo viaggio riferisce divertito di quando, nel corso di una visita a Versailles, venne scambiato per un ambasciatore orientale durante un ricevimento con il re in persona. Ma la sua ammirazione per l’Italia è una costante, al confronto con altri Paesi: “In genere tutte le città di Francia sono prive di bellezza e di arredo urbano, con molti ruderi. Ciò perché è uno Stato molto vasto: non come l’Italia e simili, dove ogni fazzoletto di terra è un ducato, una repubblica e così via”. Pungente verso i nemici e i sostenitori mancati, ha un senso di gratitudine infinita verso chi lo ha appoggiato e aiutato, invocando su di lui la protezione e la benedizione divina: “…ero seccato e amareggiato per il fatto che (ad Amsterdam) a nessuno era venuto in mente di invitarmi per la sera di Pesach. Mi ero ormai abituato che in Italia molti facevano a gara per avermi come ospite, mentre qui nessuno risponde, neppure per cenni”.
Ma l’aspetto che più colpisce del Chidà è la sua umiltà. Come non c’era affettazione nella sua modestia, così la sua diplomazia non era soltanto dettata dal suo carattere e dalla consuetudine con il ruolo di postulatore presso i potenti (quell’arte che egli stesso chiama, usando il vocabolo italiano, “politica”). Prodigo egli stesso verso chi era più povero di lui, il Chidà seguiva l’insegnamento degli antichi Maestri per cui “per tre cose il mondo si mantiene: per la giustizia, per la verità e per la pace”. Il primo tratto è evidente nella sua difesa degli oppressi e soprattutto delle donne, talune delle quali minacciate con accuse infamanti da mariti capricciosi. La volontà di ristabilire la verità emerge nelle discussioni che intraprese con “dotti” assai meno validi di lui, dedicandosi a confutare interpretazioni di testi spesso fantasiose, senza mai tuttavia offendere l’interlocutore. Il perseguimento della pace, infine, è evidente nel suo coinvolgimento nelle dispute comunitarie, spesso suo malgrado, alla costante ricerca di un compromesso che potesse accontentare tutti.