di Rav Alberto Moshe Somekh
Pensatore leggendario, nato a Livorno in pieno Romanticismo, Benamozegh riabilitò la Qabbalà predicando un umanesimo religioso che influenzò persino Giuseppe Mazzini. Un universalismo ebraico che si origina dalle Sette Leggi di Noè, valide per l’umanità intera
«Domani Ella udrà il Sciofar ed io lo udrò. A Lei che cosa dirà quel suono? Il suo Mosaismo materiale che cosa Le dirà? Certo, nient’altro che una di quelle mille graziose ma puerili ragioni che ne furono date fuori della Qabbalà; e per sentirlo con devozione, per dare importanza a Techi’à Scebarim Teru’à le ci vorrà uno sforzo di fede non ordinario. Per me, Lei lo sa, la cosa è ben diversa. Ogni nota ha la sua importanza, come ogni atomo della materia è un mistero, come ogni corpo ha il suo posto e il suo valore nella Creazione…»
Queste parole furono scritte alla vigilia di Rosh Hashanà del 1863 da R. Eliahu Benamozegh (1821-1900), colui che è stato definito “forse l’ultima espressione culturalmente creativa che l’Ebraismo italiano espresse nel suo interno” e certamente il più noto rappresentante del Sefarditismo nell’Italia ebraica dopo l’Emancipazione dal ghetto. È l’epoca della Haskalà, ovvero l’“illuminismo ebraico” che tentò un’armonizzazione degli insegnamenti tradizionali con la filosofia moderna. Anche la Comunità sefardita dell’Europa Occidentale ne subì l’impatto, ma in modo assai più morbido di quella askenazita dove la corrente si originò e scaturì, senza che ne risultasse una “Riforma” della pratica religiosa.
Nato a Livorno da una ricca famiglia di origine marocchina, fu Rabbino Capo di quella Comunità, nonché professore al locale Collegio Rabbinico e pubblicò opere in ebraico, francese e italiano. In esse egli rivela una duplice matrice culturale. Da un lato mostra una marcata influenza della tradizione qabbalistica, da lui considerata genuina espressione del pensiero teosofico ebraico contro il parere di molti studiosi ebrei dell’epoca, che la ritenevano invece una dottrina sostanzialmente estranea all’Ebraismo. Le parole sopracitate si riferiscono alla polemica che Benamozegh ebbe con Shemuel David Luzzatto, docente del Collegio Rabbinico di Padova ed aperto sostenitore della scuola razionalista e critica, nonché con i discepoli di quest’ultimo. A tale polemica Benamozegh dedica lo scritto Ta’am Leshad (letteralmente Sapore di leccornia; gioco di parole fra Num. 11,8 e le iniziali di Luzzatto stesso: il titolo va anche inteso “Risposta gustosa per Shemuel David”), una confutazione delle tesi sostenute dal padovano nel suo Wikkuach Ha-qabbalà contro l’autenticità dello Zohar e numerose lettere del suo epistolario. In queste ultime, interessantissime, la battaglia viene combattuta senza molti giri di parole. D’altro canto, Benamozegh è aperto alla filosofia europea contemporanea. Nella sua Teologia Dogmatica e Apologetica è rintracciabile una critica in chiave qabbalistica della dialettica hegeliana.
La sua preoccupazione è rivolta al rapporto fra gli ebrei e la società cristiana in Europa. Nel suo Morale juive et morale chretienne, scritto in seguito ad un concorso bandito dalla Alliance Israelite Universelle, di cui risultò vincitore, e pubblicato nel 1867 a Parigi, egli sostenne in sostanza che il Cristianesimo non ha diritto di proclamare la propria superiorità teologica sull’Ebraismo in quanto è derivato da questo ultimo. A suo parere, che fece scalpore a suo tempo, Gesù sarebbe stato legato ad alcune correnti mistiche del Farisaismo cui dedicò un altro scritto, la Storia degli Esseni. L’idea per cui il Cristianesimo avrebbe sostituito l’Ebraismo è da rigettarsi in base al principio di non-contraddizione: un Dio eterno ed onnisciente non può concedere e revocare un’elezione senza contraddirsi. Quanto all’etica, l’Ebraismo, fondendo insieme morale e nazionalità è ben radicato nella realtà, laddove il Cristianesimo, con le sue fatue pretese messianiche ed universalistiche si trova, nel momento in cui predica lo straniamento dal mondo ed abolisce la Legge, a fare rientrare quest’ultima “dalla finestra” in modo irrealistico e contraddittorio.
Ben altro respiro ha invece l’universalismo d’Israele, tema sviluppato in Israel et l’humanitè, saggio pubblicato postumo a cura del discepolo ed estimatore francese Aimè Pallière nel 1914. Accanto alla componente nazionale, espressa dalla Halakhà particolare d’Israele, vi è nell’Ebraismo un versante universale, che si esprime nei sette precetti dei figli di Noè, obbligatori per tutta l’umanità. Il Cristianesimo, che certamente deriva da quest’ultimo aspetto dell’Ebraismo, ha tuttavia tradito tale visione nel momento in cui ha creduto di proclamare l’abolizione della Legge per se stessi ed anche per Israele, anziché accettare il noachismo. Israele è invece il figlio primogenito, il popolo-sacerdote cui è imposto di osservare norme particolaristiche di maggior rigore. Ma fine dell’Ebraismo è sempre quello di istituire una regola universale. Benamozegh esprime l’idea del duplice aspetto dell’Eterno, del D-o particolare di Israele e del D-o universale con immagini molto incisive: “Il Dio d’Israele, il Dio Uno è un sole, il cui zenith si trova in un angolo privilegiato della terra e di là diffonde i suoi raggi in ogni direzione. Le diverse concezioni etnografiche su cui cadono questi raggi sono come un prisma, che ne rifrange i colori; ossia gli attributi divini. Senza il prisma le sfumature non si vedrebbero e non ci sarebbe che la luce bianca, ossia il puro monoteismo”. Frasi che documentano, nel tono del linguaggio, il clima positivistico dell’epoca.
Questo clima si avverte qua e là anche nel suo Commento alla Torà in ebraico, Em la-miqrà, dove fa uso della moderna filologia comparativa e dell’archeologia accanto alle dottrine tradizionali. Ma la teosofia ha anche qui la preminenza. Per esempio si prenda il Commento a Es. 6,3 dove si dice che D-o si sarebbe rivelato con il Tetragramma per la prima volta solo con Mosè, mentre non sarebbe stato “conosciuto” dai Patriarchi: pane per i denti dei critici di allora, che fondarono su tale affermazione la dottrina documentaria, per cui la Torà sarebbe il risultato dell’accorpamento di fonti diverse. Anticipando di qualche decennio la confutazione di Cassuto, ma su un altro piano, Benamozegh dice che «altro è l’usare un nome nel parlare di Dio, altro il conoscere questo nome… Il primo fatto non implica che la possessione del vocabolo, questione di lingua; il secondo implica possessione della dottrina racchiusa nel nome, questione di teologia… È rimossa dunque la questione, perché se i Patriarchi conoscevano il Tetragramma, non possedevano la dottrina da esso rappresentata», rivelata solo al tempo di Mosè. Fra i pamphlet halakhici, infine, merita una citazione lo Ya’anè baèsh (Risposta del fuoco), sulla proibizione della cremazione dei cadaveri, una prassi contraria alla Halakhà che a quel tempo si diffondeva e veniva messa in discussione da numerose autorità rabbiniche europee e anche italiane. Pubblicando le sue opere apologetiche in francese, Benamozegh le intendeva per lettori ebrei e cristiani. Quanto ai primi, mirava a rafforzare con questo mezzo il loro attaccamento alle Tradizioni; sperava d’altronde che i cristiani, approfondendo la loro conoscenza delle dottrine ebraiche, giungessero ad apprezzarle maggiormente. E fu proprio un cristiano il suo principale divulgatore, il giovane Aimè Pallière di Lione, che di Benamozegh fu discepolo di penna: si incontrarono una volta sola. Pallière, rivoltosi a Benamozegh perché lo preparasse a convertirsi all’Ebraismo, fu da questi convinto a farsi piuttosto promotore del noachismo. Benamozegh dovette con ogni probabilità aver esercitato un’influenza almeno indiretta sul pensiero di alcuni esponenti di spicco del Romanticismo e del Risorgimento italiano con il suo umanesimo religioso, primo fra tutti Giuseppe Mazzini.