Modigliani e Soutine, tra Parigi e l’ebraismo

Feste/Eventi

di Riccardo Sorani

La Parigi dei primi del ‘900 fu la culla dell’arte del ventesimo secolo grazie al clima innovativo dell’Impressionismo e alle forze dirompenti dei nascenti movimenti avanguardisti. Il quartiere di Montmartre e la zona di Montparnasse diventarono il centro della vita e il ritrovo di molti artisti che confluirono a Parigi da più parti d’Europa per riuscire a emergere – in un clima euforico di entusiasmo e sregolatezza – nel mondo dell’arte, trovare contatti e occasioni di lavoro. Raggruppati genericamente sotto il nome di “Scuola di Parigi”, non condivisero un manifesto o non fondarono una corrente, ma semplicemente furono sensibili alle istanze di cambiamento proposte dai nuovi linguaggi artistici, senza però aderire esplicitamente ad alcun movimento. Tra loro numerosi furono gli ebrei tra cui Modigliani e Soutine, celebrati nella mostra in corso a Milano e dedicata alla prestigiosa collezione di Jonas Netter, ebreo alsaziano, rappresentante di commercio e amante dell’arte. Ma siamo davanti ad un’arte omogenea con un’attitudine ebraica, nonostante sia priva di soggetti o simbologie esplicite, oppure abbiamo a che fare con singole personalità che giocarono un ruolo nell’evoluzione artistica della nostra epoca? La visita alla mostra ci consente di tracciare un percorso visivo per provare a rispondere a questa domanda.

L’improvviso apparire di un gran numero di talentuosi artisti ebrei nella nostra epoca fu a lungo attribuito all’emancipazione del popolo ebraico tenuto in posizione marginale rispetto agli sviluppi artistici dell’Europa e del resto del mondo. È certamente vero che le Comunità della Diaspora furono raramente in grado di inventare un idioma artistico che potesse essere distinto dal lavoro dei vicini non ebrei, limitate dai precetti della fede (il divieto d’immagine postulato nel Secondo Comandamento), dallo status politico ed economico. D’altro canto questa segregazione non impedì comunque uno sviluppo nelle discipline artistiche tale da consentire ad alcune personalità di emergere, come accadde per Camille Pissarro, generalmente riconosciuto come il codificatore dell’Impressionismo, per Marc Chagall innovatore verso l’Espressionismo e il Surrealismo o come Marcoussis, promotore di una dimensione in chiave poetica del Cubismo.

Ma è lecito ad esempio, parlando di Modigliani, “etichettare” la sua opera come arte ebraica? Per quanto ci si sforzi di osservarla o scrutarla fin nel dettaglio, difficilmente crederemmo che i suoi dipinti siano in grado di forgiare un legame con il secolare milieu ebraico. Sappiamo che non furono realizzati per l’uso e l’apprezzamento di un pubblico che vive seguendo la tradizione ebraica, e tantomeno appaiono legati ad aspetti che rimandano alla rappresentazione del legame tra Dio e il popolo d’Israele espresso attraverso una riconoscibile iconografia o simbologia ebraica. Ciò significa che l’opera di Modigliani non può essere considerata ebraica tout court. Eppure la sua esperienza livornese, le sue frequentazioni con i colleghi dell’Est Europa, il suo essere orgogliosamente ebreo in una Parigi fortemente antisemita, devono in qualche modo riflettersi nelle sue opere. Ed infatti quei volti ovali e quelle forme allungate sono la risposta tutta personale ad una domanda esistenziale che ha costantemente permeato il percorso di Modigliani: “perché esistiamo in questo mondo?” Le risposte devono essere cercate nell’esperienza e nella formazione artistica di Modigliani (arte Classica, le Madonne del Trecento senese, la Pittura della Macchia del suo maestro Fattori), ma soprattutto nel suo vissuto ebraico certamente riemerso con forza nella realtà parigina e nell’incontro con Max Jacob, artista-poeta e critico del giro di Montparnasse. Con quest’ultimo, ebreo convertitosi al cattolicesimo, Amedeo approfondì lo studio della Qabbala e forse alcune delle sue domande trovarono risposta nei testi esoterici. L’opera di Modigliani si sviluppa per dualismi (elemento affatto estraneo alla disciplina qabbalistica): nei suoi ritratti vi è una costante tensione tra senso ascetico e intimidazione, le sue opere sono in bilico tra ricerca della vera anima interiore in contrasto con l’esistenza fisica circostante, gli occhi svuotati o assenti, spesso privi di pupille e le gote arrossate e vive. “L’uomo è un mondo”, diceva e si cimentava attraverso la pittura nella ricerca di questo microcosmo a immagine divina, così come il qabbalista si cimenta nella ricerca di un mondo superiore.

Chaim Soutine

«Ma la parola chaim non significa ‘vita’?», chiese una volta Modigliani al suo amico, che rispose: «Lo avevo dimenticato!». Di forte impatto è certamente il ritratto dell’amico Chaim Soutine del 1917, forse la più ebraica delle opere in mostra. I due si conobbero grazie ad un artista amico comune, Pinchas Kremegne, e condivisero anche l’appartamento messo a disposizione dal loro mercante Zborowski. Il dipinto è ancora una volta uno splendido esempio di tensione: il contrasto tra l’ebraismo orientale e quello occidentale, l’ebreo assimilato ed educato (Amedeo) che ritrae l’ebreo dell’est dai modi rozzi e con sempre gli stessi abiti indosso; lo sguardo di Soutine è assente ma rimanda al desiderio di un’altra vita rappresentata da una porta sullo sfondo. Tuttavia l’elemento acquietante è l’ebraismo, simbolizzato da quella mano appoggiata sul ginocchio con le dita in posizione benedicente.

L’aspetto ebraico in Soutine è invece riscontrabile in numerose sue opere e la sua grandezza come artista risiede tutta nella capacità di coniugare la lezione della grande arte appresa a Parigi e nelle sale del Louvre, e la sua personale esperienza ebraica. Alcune delle opere esposte della collezione Netter sono esemplificative in questo senso. Ritroviamo verosimilmente un uso simbolico dei colori di forte sapore yiddish – prassi ricorrente anche in Chagall – unitamente alla personalizzazione della pennellata, sinuosa e straziata proprio come in Van Gogh. Soutine era un artista tormentato: si racconta che da giovane chiese di poter ritrarre il Rabbi della sua cittadina, e per questa blasfema richiesta, fu picchiato dai figli di quest’ultimo. La madre per non denunciare l’accaduto alle autorità, chiese un risarcimento, che una volta ottenuto permise a Chaim di partire per Parigi. Il tormento di Soutine era vivo nel ricordo della sua comunità, nei Pogrom, così come nel disgusto per la shechità, quest’ultimo tema trasferito nelle nature morte di animali e in particolare nel ritratto delle carcasse appese dei bovini (una di questa esposte qui a Milano). Il tema della carcassa non è nuovo nella storia dell’arte e Soutine lo fa suo grazie all’opera di Rembrandt presente al Louvre. Si tratta di un tema universale di sofferenza, spesso associato alla crocifissione, proposto da numerosi artisti, da Picasso ad oggi con le deformazioni di Francis Bacon o gli animali sezionati in formalina di Damien Hirst. Nel caso di Soutine invece, la sofferenza diventa insofferenza per il mondo ebraico, piccolo e non a misura d’artista, unitamente alle sue pratiche apparentemente prive di misericordia.

La mostra si chiude con le ultime sale dedicate alle altre personalità della scuola di Parigi, artisti amici tra loro come Moise Kisling, Isaac Antcher, Eugène Ebiche, Michel Kikoine e molti altri. Da una visione superficiale delle loro opere si potrebbe banalmente sostenere che la Scuola di Parigi diffuse in maniera eclettica e disorganica lo stile delle avanguardie, ma attraverso una profonda analisi dell’ambiente parigino e delle relazioni tra questi artisti, il contributo che emerge è la tensione verso una libertà espressiva e una ricerca per un nuovo spirito universale, brutalmente annientati, per molti di loro, dall’incombente tragedia della Shoah.