L’arte è “caduta e rinascita”, un racconto delle nostre fughe

Jewish in the City

di Daniele Liberanome

Chagall_Tavola_XXIV_-_La_storia_dell'Esodo«Tutto inizia con la riflessione sul Secondo Comandamento, che vieta di farsi immagini. Non va inteso come un divieto puro e semplice ma come un invito all’artista a concentrarsi su quello che non si può rappresentare, su quello che non si può idealizzare. Un’immagine da adorare, di fronte alla quale inginocchiarsi, deve essere perfetta e l’artista che l’ha creata deve sforzarsi di esprimere il significato ideale, unico, della scena che riproduce. Un’opera del genere deve essere interpretata in un solo modo. Il Secondo Comandamento indica invece una strada del tutto diversa: non esistono immagini perfette, univoche; tutte quante possono, anzi devono, essere analizzate e vissute in modi diversi a seconda di chi e quando le osserva. Sono state poi le autorità religiose, non solo ebraiche, ad attribuire un significato molto più restrittivo a quanto scritto nella Torà».
MG_9299-copia1Questo dice Daniel Sibony, psicanalista, autore di una trentina di libri, studioso di Torà e di storia delle religioni. Ha dedicato una parte dei suoi scritti all’arte, intesa come esperienza emotiva del creatore e dello spettatore. Trionfo della soggettività. Sarà interessante ascoltarlo a Jewish and the City, dove parlerà di Marc Chagall e della mostra che a Palazzo Reale. Abbiamo scambiato con lui alcune idee sul binomio arte-ebraismo, e l’originalità del suo approccio è subito venuta a galla.
Torniamo quindi al Secondo Comandamento “Non farti scultura, né immagine alcuna delle cose che sono lassù nel cielo o quaggiù sulla terra o nelle acque sotto la terra. Non ti prostrare davanti a loro e non li servire”. Vietare di rappresentare una figura idealizzata, per lunghi secoli significava più o meno vietare qualsiasi tipo di rappresentazione. Ma su questo punto, Sibony segue un percorso inaspettato. «In effetti l’impatto del Secondo Comandamento è gradualmente cambiato nel corso dei secoli. Nell’arte classica, dai tempi antichi fino al pieno Ottocento, il soggetto era perfetto, divino o divinizzato, agli antipodi di quanto scritto nella Torà. Dalla fine dell’Ottocento alla Seconda Guerra Mondiale, l’artista che chiamiamo “moderno” presentava invece nei quadri, nelle sculture, la propria personale visione del mondo; aveva così compiuto un primo passo nella direzione indicata dal Secondo Comandamento.
Ad esempio, Picasso dipinge le sue donne con tanti nasi, perché così le vedeva lui stesso da vicino, mentre le baciava. Nei suoi quadri, riportava il suo personale punto di vista del soggetto.

Nel mondo contemporaneo, dal Dopoguerra a oggi, l’arte ha compiuto un deciso passo nella direzione indicata dall’ebraismo e i valori del Secondo Comandamento sono diventati patrimonio comune. L’artista ora riporta nelle opere le sue esperienze, i suoi momenti di rottura e di crisi e invita lo spettatore a fare altrettanto, a tuffarsi nella sua creazione, a sentire i propri disagi, fino a creare un ponte con i suoi sentimenti. Alla fine, come diceva Marcel Duchamps, l’opera diventa al 50 per cento dell’artista e al 50 per cento dello spettatore; guardarla, diviene un’esperienza emotiva personale, un modo di esperire la faglia, quella crepa interiore tra l’Essere come infinità di possibili e l’idolo in quanto cornice che vorrebbe contenere e racchiudere l’infinito. Tutto questo è perfettamente in linea con la visione ebraica».

Un inno alla vita
Significa allora che tutte le opere hanno le loro caratteristiche ebraiche? «Non è così che bisogna guardarle, viverle. Sarebbe un errore – sostiene Sibony -. L’arte contemporanea è intrisa di ebraismo alla radice, inutile andare a cercare segni chiari, evidenti in opere specifiche di determinati artisti, specie se ebrei. Si rischia di cadere nella dietrologia, di interpretare i lavori in modo superficiale e forzato».

La tesi di Sibony pare però essere contraddetta dall’esistenza di un’arte indubitabilmente ebraica, che però è estremamente realistica, non ha niente di astratto. Provo a pungolarlo. Ma allora come spiegare i disegni che troviamo nelle Haggadot, antiche e recenti. Non rappresentano tutti la realtà? I quattro figli, ad esempio, non vengono di solito rappresentati con 4 persone in carne ed ossa con caratteristiche fisiche diverse corrispondenti al diverso messaggio spirituale che esprimono nell’Haggadà? Tutto questo pare lontano alla visione ebraica dell’arte per come la intende il pensatore francese. Non ho citato un esempio a caso, perché Jewish and the city propone anche una mostra di immagini tratte dalle Haggadot.
Sibony non si scompone affatto. «Le Haggadot fanno storia a sé. È vero che sono ricche di figure vere e proprie, ma accompagnano un testo che si legge durante il seder di Pesach, in un ambiente conviviale, e lì non rischiano di essere idealizzate, scambiate per il modo più corretto di esprimere il senso intimo del testo scritto».
Ma allora cosa dire di Chagall? – incalzo. Passa per essere l’artista ebreo per eccellenza eppure i suoi quadri sono realistici, non astratti, e tutti, basati su riferimenti alla nostra storia e alla nostra religione. «Non esiste contraddizione fra la mia tesi e il lavoro di Chagall, che non ha niente in comune con le rappresentazioni dell’arte pre-Ottocentesca. Al contrario, ha molto di contemporaneo, ma questo di solito non si scrive, perché si analizzano i suoi quadri in modo sbagliato o almeno parziale. Mi spiego. Troppo spesso si guarda soltanto alle forme che riproduce, cercando di spiegare il significato, che so, della sposa che vola o dei mazzi di fiori. Ma così si perde di vista che Chagall, come gli artisti dell’ultima generazione, dipinge soprattutto la sua propria storia, i suoi momenti di caduta e di rinascita. La biografia di Chagall è tutta fughe e ritorni, perdite e rinascite. Da giovane scappò a Parigi, poi tornò in Russia e poi di nuovo a Parigi. Dovette lasciare diverse opere a Berlino dove gli vennero rubate. Ma fu sempre capace di rinascere, di riprendersi dalle sue crisi, dai suoi momenti di difficoltà; è questo che raccontano i suoi quadri. Chagall era un drogato di gioia di vivere; così lo definisco. E poi i soggetti dei suoi quadri si prestano a mille interpretazioni, non sono idealizzazioni». Visitare così, con questo viatico, la mostra di Palazzo Reale, sarà tutta un’altra cosa.