Jewish and The City / Giole Dix: “Pesach, la festa della gioia”

Jewish in the City

di Carlotta Jarach

gioeleok«Mi dispiace per tutti coloro che si offenderanno, ma qui ho fatto il bar-mitzvà, perciò questo è il mio tempio: Guastalla è mia». Con l’ironia che lo contraddistingue apre così David Ottolenghi, attore e scrittore, in arte Gioele Dix, il suo intervento in Sinagoga Centrale dal titolo “E Mosè batté la roccia”.

Dalla bimà (altare) della sinagoga – ben diversa dal palcoscenico a cui è così abituato – racconta anche lui Pesach, perfetta evocazione di quello che è l’ebraismo. Il Seder come rappresentazione e esercizio della ricerca instancabile di colmare un vuoto, attraverso il racconto, la memoria, l’interpretazione e l’immaginazione. Un intervento, il suo, fatto di comicità, ma anche di riflessioni profonde, come la sacralità del luogo forse impone.

«Pesach è una festa, una ricorrenza in cui qualcosa che era finito viene poi di nuovo riconquistato – ha esordito -. Il nostro, dunque, è godimento per qualcosa che abbiamo finalmente riacquisito, per quel vuoto che abbiamo, temporaneamente, colmato. Siamo il popolo delle domande, poniamo domande e rispondiamo a domande con altre domande».

Manteniamo dunque sempre quel senso di incompletezza, che verrebbe meno una volta trovata la Risposta, continua Dix. Ed ecco che è più forte il desiderio della venuta del Messia che il suo stesso arrivo. «Per questo noi apparecchiamo per un commensale in più – continua -. Qualcuno perché ci crede davvero, qualcuno invece spera solo di poter bere anche un quinto bicchiere: alla salute del profeta Elia!».

Ma nonostante questo continuo proiettarsi al futuro, secondo Dix costruiamo pezzo per pezzo quello che è il nostro presente, il nostro al di qua; ed è forse questo attaccamento alla vita, ricorda Gioele, che ha permesso al nostro popolo di sopravvivere, molte volte. E questo vuoto da riempire è un dipinto, che rappresenta gli ebrei tra le acque del Mar Rosso, rincorsi dagli Egiziani: una tela tutta bianca. Senza gli ebrei, senza il Mar Rosso, senza gli Egiziani.
Il Mar Rosso non c’è, avvolto com’è nel mistero e nel miracolo della sua divisione, nonostante la poca propensione a credere ai miracoli degli stessi ebrei che dovevano attraversarlo, quel mare. Così è giusto non imprimerlo sulla tela, per conferirgli lo status di miracolo, e come tale non rappresentabile.

Gli ebrei che fuggono non ci sono: perché solo i ladri fuggono, e gli ebrei non erano ladri; anzi, fino alla fine hanno cercato il placet del faraone. Una delle tante nevrosi degli ebrei, così dipendenti dal giudizio degli altri, anche da quello dei propri nemici.

E infine non ci sono nemmeno gli Egiziani: quei soldati che, senza colpa, annegarono nel Mare, e il cui ricordo deve essere mantenuto vivo. A nessuno piace descrivere il loro triste destino. E così gli ebrei passano il mare e sono nel deserto, conquistano la Legge e con essa la maturità. Pesach, festa dell’identità e delle radici, racconto variopinto fantasioso, ma al tempo stesso comprensibile e infantile. Naturale e semplice. Ed ecco che l’eredità e l’identità di un popolo si manifestano nell’atto di raccontare e di tramandare, quella storia, ogni anno, in un’ossessionante ripetizione.

Poi torna comico, Gioele. «Andrò un po’ contro corrente, ma a me piace il pane azzimo e, vi dirò, negli ultimi anni è nettamente migliorato. Sì, perché è molto amato dai salutisti non ebrei, in questa moda dilagante che adora la sottrazione: biscotti senza lievito, senza glutine, biscotti al farro senza farro, colazione senza colazione! Che viene anche voglia di comprarla al supermercato la mazzà, senza farla arrivare da Israele. Ma purtroppo la Conad non ha ancora un rapporto così stretto con i nostri rabbini».

Pesach dunque è gioia è riso, è la festa dell’affetto e dell’amore, dello stare insieme ai propri figli. È la festa del bere e del mangiare; la festa della disponibilità, di quel profeta che attendiamo con la porta aperta. Rovescia lo stereotipo del popolo ebraico destinato alla sofferenza e sinonimo di persecuzione. «Perché, come dice il Midrash Rabà – conclude Gioele -: “quando la gioia arriva al mondo, Israele è il primo ad accorgersene”».