di Fiona Diwan
Non si sono ancora spente le luci delle centinaia di candele che come nelle fairy tales, i nordici racconti delle fate, hanno illuminato l’evento inaugurale del Festival Jewish and the city, sabato 13 settembre, regalando ai più di mille milanesi convenuti alla Rotonda della Besana, alle 21,30, il racconto della Haggadah di Pesach e la spiegazione di che cosa significhi in termini etici e simbolici la Pasqua ebraica, il racconto dell’Esodo e la strada nel deserto in cerca di una difficile libertà. Disseminate tra i tavoli, tra le arcate del porticato o tra i rami maestosi delle paullonie del giardino, le candele della scenografia inventata da Andreè Ruth Schammah si sono spente piano piano nella notte per lasciar spazio ai riflettori che domenica mattina alle 10,30, si sono accesi sulla vera partenza del Festival, alla Sinagoga Centrale di Milano, nella giornata forse più ricca e densa di eventi di questa tre giorni di incontri.
«Una serata magica, una messinscena che è subito diventata una cena in famiglia, parole di saggezza e un ponte che ci riconnette alla città», ha detto Daniele Cohen, Assessore alla cultura della Comunità Ebraica di Milano, dopo i lunghi ringraziamenti a sponsor e politici presenti oggi in tempio, dal sindaco Giuliano Pisapia al Presidente della Provincia Guido Podestà, dal prefetto Francesco Paolo Tronca a Monsignor Fumagalli, dal deputato Lele Fiano a Roberto Cenati dell’ANPI, alla delegazione islamica del Coreis fino ai rappresentati dell’Arma dei carabinieri, senza dimenticare la vice sindaco Ada Luisa de Cesaris, gli sponsor Giuseppe Guzzetti della Fondazione Cariplo e Vittorio Meloni di Banca Intesa.
«Un grazie va a tutta la Comunità Ebraica, che dona questo festival alla città: un messaggio di cultura, e conoscenza, unico modo per evitare dissidi, discriminazioni e guerre. Un festival che risponde a una grande scommessa: la capacità di restare uniti nelle divergenze e nelle differenze, un festival che promuove il dialogo interreligioso e interculturale. Perchè l’ unità è fondamentale tra istituzioni e forze sociali e il solo modo per raggiungerla è la via della cultura e della conoscenza dell’altro. Ringrazio rav Roberto della Rocca per le parole che ha saputo dire: “libertà non è solo liberarsi dalle schiavitù ma affrancarsi dai pregiudizi”, ha detto Giuliano Pisapia in apertura lavori. Gli ha fatto subito eco il Presidente della Comunità Walker Meghnagi «Ringrazio Daniele Cohen e tutto il comitato organizzatore, so quanto è stato difficile organizzare questa edizione del Festival. Vedere qui riunita così tanta gente (la sinagoga era stracolma, ndr), specie in questi momenti difficili, ci aiuta ad andare avanti. Specie oggi, che vediamo dilagare così tanta violenza diretta verso chi è solo colpevole di non condividere lo stesso credo religioso. Lo dico qui ora: per noi, per l’ebraismo, il principio della sacralità della vita viene prima di tutto. E se ciascuno ha il suo credo religioso, il Dio unico è lo stesso per tutti».
Citando Papa Francesco, Guido Podestà ha messo l’accento sul confronto delle idee, unico modo per uccidere la paura dell’altro dentro di noi. Siamo tutti figli di Abramo, specie oggi che viviamo in una sorta di Terza Guerra Mondiale, e dobbiamo agli ebrei e al racconto dell’Esodo se oggi sappiamo cosa voglia dire un percorso verso l’affrancamento dalla schiavitù.
Dopo l’intervento di Massimo Garavaglia, Assessore al Bilancio della Regione Lombardia cha ha portato i saluti di Roberto Maroni, ha parlato il Rabbino capo Alfonso Arbib concentrandosi sui due temi del festival e della Giornata europea della cultura ebraica, l’Esodo e le donne nell’ebraismo. «Non è semplice dire che cosa sia esattamente la libertà. E nemmeno parlare della donna è semplice, perché tutto, nella tradizione ebraica, è complesso. Tenterò quindi un approccio parziale partendo dall’episodio del vitello d’oro, nell’Esodo. Un momento terribile, un esempio di delirio collettivo, la massa che preme per la costruzione di un idolo e solo pochissimi che si oppongono. Ebbene, tra questi pochissimi troviamo le donne di Israele, che si rifiutano di donare, come fanno gli uomini, il loro oro e gioielli per la costruzione del vitello. Rifiutano questa regressione verso l’Egitto ma verranno costrette con la violenza a cedere il metallo prezioso. Ecco: uscire, andare verso la libertà vuol dire non assuefarsi alla logica maggioritaria, alle idee dominanti, ai deliri collettivi. Essere liberi è difficile e, a volte, la schiavitù ha un suo fascino, perché qui ci sarà sempre qualcuno che ti dirà cosa pensare o fare, nessuno ti chiederà di esercitare decisioni o di prenderti responsabilità».