di Ilaria Myr
A Pesach si celebra l’uscita dall’Egitto e la conquista della libertà. Ma ci fu un altro esodo di ebrei dall’Egitto molto più di recente, nel XX secolo, che contrariamente al primo fu un esilio forzato, a cui gli ebrei furono costretti dopo anni di benessere e vita felice in Egitto. Questo l’argomento centrale dell’incontro di lunedì pomeriggio alla Biblioteca Sormani, intitolato appunto “Gli ebrei d’Egitto del Novecento. Il secondo Esodo”. Alla storia di questa popolazione ebraica è stata dedicata un’intera ricerca del Cdec (centro di Documentazione ebraica contemporanea), nell’ambito del progetto Edoth, che mira a raccogliere su supporto audiovisivo le testimonianze degli ebrei medio-orientali che furono costretti a lasciare il proprio paese.
Nel caso dell’Egitto, questa emigrazione interessò decine di migliaia di persone, che si spostarono con i propri gruppi famigliari in paesi a loro sconosciuti, quando la situazione nel Paese diventò ormai intollerabile.
«Gli ebrei giunsero in Egitto nel XVI secolo, in seguito alla cacciata dalla Spagna del 1492, quando il Paese era parte dell’Impero Ottomano – ha spiegato la storica del Cdec Liliana Picciotto –: multinazionale, multilingue, tollerava le minoranze a cui concedeva di gestirsi con statuti propri».
Nel 1869 la svolta: fu tagliato il canale di Suez da Francia e Regno Unito. Questo sconvolse il commercio internazionale, fino ad allora controllato dagli ottomani. Molti quindi sono gli ebrei che si trasferiscono in Egitto: in gran parte provengono dalla Siria, ma anche in qualche caso da paesi dell’Europa orientale. «La prima caratteristica degli ebrei egiziani è quindi quella di essere degli immigrati, che li distingue dagli altri dei Paesi arabi, più stanziali», sottolinea Picciotto. Nel 1882 l’Egitto passa sotto protettorato britannico, mantenendo però la monarchia; nel 1922 , dopo la prima guerra mondiale, l’impero ottomano è sfasciato. La situazione per gli ebrei continua però a essere ottima, la tolleranza è assoluta: qui gli ebrei sono finanzieri imprenditori, banchieri, quadri nelle imprese statali.
Ma nel 1945 il governo britannico perde sempre più di importanza, e cresce la pressione dei Fratelli Musulmani. Si deve però aspettare il 1948, con la fondazione dello Stato d’Israele, per avere l’inizio dei veri problemi. «In Egitto scoppiano campagne di diffamazione e boicottaggio contro gli ebrei accusati di parteggiare – spiega Picciotto -. Ci sono arresti al Cairo, perquisizioni a domicilio. Tanto che il 22 settembre scoppiano delle bombe nel quartiere ebraico, che fanno 29 morti. Il risultato è che fra il 1948 e il 1950 lasciano il paese 25.000 ebrei». La situaizone è però destinata soltanto a peggiorare: nel 1952 il colpo di Stato del movimento dei Liberi Ufficiali guidato da Gamad Abd-el Nasser rovescia il re Faruk, e dopo due anni Nasser sale al potere, introducendo una politica nazionalistica e antioccidentale, evolvendo verso una concezione antireligiosa che esclude i non musulmani e i non arabi. Nel 1956, con la nazionalizzazione del canale di Suez e la conseguente guerra, inizia il grande esodo: i cittadini con passaporto francese, britannico e gli apolidi vengono espulsi in pochi giorni, ma anche le altre nazionalità vengono costrette a partire. Molti sono dunque gli ebrei che fra il 1956 e il 1960 lasciano il Paese (solo nel 1956 si contano 21.000 partenze), dove ormai per gli ebrei è impossibile vivere. «Chi lascia l’Egitto deve firmare un documento in cui dichiara che lo fa per sua volontà e che non tornerà mai più».
Parlano i testimoni
E’ in questo quadro della Macrostoria che si inseriscono le microstorie oggetto delle 58 interviste svolte dal Cdec, sotto il coordinamento di Adriana Goldtsaub, che durante l’incontro ha tracciato alcune linee comuni. «Quando chiedevamo a queste persone com’era la vita in Egitto, tutti ci hanno risposto con i visi che risplendevano – ha spiegato -. Facevano una bella vita: vacanze, gite, per lo più erano benestanti, anche se non mancavano quelli meno agiati. Parlavano francese fra loro e arabo con i domestici egiziani. Erano tendenzialmente laici: pochi frequentavano il tempio. Le occupazioni dei loro genitori erano delle più varie: molti erano nel settore tessile, ma c’erano anche agenti di cambio, un sensale di matrimonio, e un direttore commerciale della Philips (il nonno della giornalista che scrive, ndr). Le scuole? Frequentavano principalmente quella laiche: francesi, inglesi, addirittura anche cattoliche. Era insomma un ambiente composito dal punto di vista etnico e culturale, che li aiuta nel loro ricollocamento dopo».
Poi il peggioramento delle situazione e la partenza forzata, l’arrivo in Italia, il freddo, la lingua nuova e le nuove abitudini: «c’è pure chi si stupisce “si parla in tram! In Egitto non succedeva”. Ma c’è tanta voglia di ricostruire e tanta forza di ricominciare, e per loro che parlano le lingue non è difficile trovare un lavoro in ambienti dove esse sono richieste: import-export, linee aeree, ecc…La vita, insomma, ricomincia».
A confermare in carne e ossa la sintesi di Adriana Goldstaub tre degli intervistati – Rolly Cohen, Miki Sciama e Luli Ades – che con il loro humour e la loro acutezza hanno restituito agli astanti un mondo scomparso, fatto di gioia, ma anche di dolore. Un mondo ormai passato, molto lontano da quello che è l’Egitto di oggi (dove non tornerebbero mai), ma ben vivo nei loro ricordi. Come diceva un intervistato nel trailer del film dedicato agli ebrei d’Egitto “42 suitcases” di Ruggero Gabbai: “Noi abbiamo lasciato l’Egitto, ma l’Egitto non ha mai lasciato noi”.
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