di Davide Foa
“Storia e memoria sono alberi maestri, dalle vele attorcigliate ma distinte (…) appartengono alla stessa imbarcazione destinata a una sola e unica navigazione, con una comune meta: rappresentare il passato”. Maria Luisa Betri, docente di Storia presso l’Università degli Studi di Milano, cita questo passaggio di Paul Ricoeur, filosofo francese, in occasione della conferenza dal titolo “Scrivere la Memoria: biblioteche, archivi, diari, manoscritti”, tenutasi presso la meravigliosa Sala Napoleonica di Palazzo Greppi.
Oltre alla professoressa Betri, sono stati chiamati altri due relatori. Micaela Procaccia, dirigente del Servizio II tutela e conservazione della Direzione Generale Archivi, e Michele Sarfatti, direttore della Fondazione CDEC ONLUS di Milano. Il tutto viene introdotto e coordinato da Marina Messina, docente presso l’Università degli Studi di Milano nonché impegnata per la soprintendenza per i musei storici e archeologici del Comune.
Il tema da affrontare non è dei più semplici; si chiede infatti ai relatori di analizzare il rapporto Storia-Memoria, soffermandosi sul valore delle fonti orali, più precisamente delle testimonianze.
“È sempre più difficile oggi riuscire a trasmettere una conoscenza”, afferma la professoressa Betri, sottolineando l’incapacità dei giovani d’oggi di percepire ciò che non è immediato. I Media bombardano gli utenti di informazioni presenti, immediate, e la vittima principale di tutto questo è l’interesse per la storia. Il nostro compito, prosegue la Betri, è dunque quello di riaccendere tale interesse.
Bisogna distinguere la memoria, fatta di soggettività, dalla Storia, che dev’essere invece il più obiettiva possibile.
La stessa docente ammette però una sempre più stretta relazione tra le due; il rischio è che in futuro “lo storico sarà solo un narratore e la storia solo un racconto”. Ecco allora l’importanza delle parole di Ricoeur; Storia e Memoria sono due alberi maestri distinti ma con una stessa meta.
Chi è stato a far scatenare tutto questo? Chi ha deciso, a un certo punto, che Storia e Memoria dovessero avvicinarsi l’un l’altro? È stata la Shoah. Essa rappresentò un limite per la Storia intesa come disciplina, sottolinea Betri.
Le testimonianze, fonti che un tempo venivano considerate di seconda classe, divennero fondamentali per comprendere una tragedia umana di proporzioni mai viste.
Era iniziata “L’era del Testimone”. Gli storici, alle prese con la Shoah, diedero sempre più valore alla soggettività, al racconto in prima persona. Essi compresero che da lì in poi l’umanità andava indagata in tutti i suoi aspetti e i ricordi insieme ai sentimenti dei protagonisti divennero le fonti principali di una siffatta ricerca.
Concluso l’intervento della docente, la parola passa a Micaela Procaccia.
Secondo l’archivista, tutti siamo affamati di Storia. Banalmente, basta vedere il successo delle fiction televisive di argomento storico, seppur il più delle volte siano ricostruzioni piuttosto lontane dalla realtà.
Tutti noi oggi possiamo sfamarci aprendo un libro di storia, o anche più di uno. Ma la fonte primaria qual è? Dove si è sfamato il primo artefice di un libro di storia di qualsiasi argomento? La risposta la fornisce Procaccia: negli archivi.
L’immaginario comune ci presenta l’archivio in due modi, o come un luogo polveroso pieno di cartacce sparse, oppure come un lungo corridoio delimitato da scaffali inaccessibili. Questi archivio, disordinati o misteriosi, sono certamente lontani da quello reale.
L’archivio, ci tiene a precisare la relatrice, è in realtà vicinissimo a noi. Tutti ne hanno uno in casa propria, ovvero un complesso di documenti prodotti o acquisiti durante lo svolgimento della propria attività.
Compito dell’archivista, spiega Procaccia, è quello di riscrivere la Storia di chi ha prodotto i documenti; per questo l’archivista altro non fa se non cercare di riprodurre l’ordine iniziale ideato dal produttore dei documenti. In questo sta la differenza con una biblioteca, dove invece è possibile sistemare libri o documenti come meglio si crede.
Ecco perché “cercare documenti in archivio è una caccia al tesoro”, dove non mancano per altro fonti sotto forma di testimonianze, per esempio quelle di processi giudiziari trascritte parole per parola.
L’archivio, conclude la relatrice, “è un bene comune a presidio di una società democratica”.
L’ultimo relatore, Michele Sarfatti, presenta al pubblico una serie di testimonianze dirette partendo da un lettera di un ebreo romano del 1932, che definiva Roma “la Mecca dell’antisemitismo”, per arrivare alla descrizione della liberazione di Firenze dell’11 agosto 1944.
La memoria, sottolinea Sarfatti, ha un andamento oscillatorio, un po’ come il pendolo. Essa, oscillando da una parte all’altra della nostra mente, non può far altro che selezionare alcune esperienze e tralasciarne altre. Di fatto, la memoria posteriore non può contenere tutta la Storia, poiché dopo la percezione avviene la selezione dei fatti.
Tutti noi siamo artefici di selezioni; posizioniamo i nostri ricordi lungo i gradini di una scala secondo i criteri più vari.
I testimoni sopravvissuti ad Auschwitz, nelle loro testimonianze, eseguono esattamente questo procedimento, privilegiando alcuni ricordi rispetto ad altri.
D’altra parte, al di là di come possano lavorare il nostro conscio e il nostro inconscio, è insito in noi il desiderio di ricordare alcuni fatti, belli o brutti che siano; c’è chi non vuole scordare un episodio per conservarlo nel proprio cassetto e chi invece sente dentro di sé la necessità di ricordare per tramandare.
“Io della mia vita voglio ricordare tutto, anche quella terribile esperienza che si chiama Auschwitz… Per questo, credo, sono tornata: per raccontare”, Settimia Spizzichino.