di Francesca Olga Hasbani
“Ogni tanto mi accorgo che la penna ha preso a correre sul foglio come da sola, e io a correrle dietro. È verso la verità che corriamo, la penna e io, la verità che aspetto sempre che mi venga incontro, dal fondo d’una pagina bianca, e che potrò raggiungere soltanto quando a colpi di penna sarò riuscito a seppellire tutte le accidie, le insoddisfazioni, l’astio che sono qui chiuso a scontare”, scriveva Italo Calvino nel Cavaliere Inesistente. Parola dopo parola lo scrittore crea mondi, vissuti e sognati, immergendo il lettore nel mare dell’immaginazione e della fantasia. Ogni parola racchiude in sé giostre di significati carichi di emozioni e ricordi. Dal più semplice gesto al più profondo pensiero, in ogni vita ebraica è nascosta la possibilità di un romanzo. E spesso questa possibilità si realizza, la fantasia lascia una traccia sulla carta.
L’ebraismo si manifesta nelle infinite sfaccettature di una cultura millenaria che trova la propria espressione più genuina in una quotidianità che ripete gesti, usi e modi, rimasti identici nei secoli. Diventa parte del proprio “stile” di vita. E quando la vita ebraica è quella di uno scrittore, di questa tradizione costui si fa messaggero.
Ma che importanza può avere la formazione di una cultura ebraica nella vita di un ragazzo? “Enorme” ci risponde Bruno Osimo “limitandomi al mio campo, direi che è eccellente per chi, come me, lavora sull’arte della traduzione e dell’interpretazione dei testi. Saper interpretare e saper rispettare l’interpretazione altrui, – che l’ebraismo ci insegna – è un ottimo rimedio contro il dogmatismo. È qualcosa che inocula il virus della curiosità, e nel contempo fa capire che la conoscenza può essere solo un processo in divenire”. Osimo, scrittore e traduttore di numerosi classici russi, è autore del libro Il dizionario affettivo della lingua ebraica (Marcos y Marcos).
Gli anni trascorsi alla Scuola ebraica di Milano, come per molti altri, sono divenuti per lui tesoro d’esperienze. Lo studio della lingua ebraica ha influenzato il suo lavoro, ed ancora oggi ci dice “l’impatto che l’ebraico ha avuto sulla mia vita è stato drammatico, anche se ovviamente i drammi dei bambini agli adulti fanno sorridere… Come cerco di far trapelare dal libro, scritto dal punto di vista del bambino, all’epoca ero sotto choc”. Alla Scuola ebraica “io non capivo dov’ero, chi ero e che cosa ci facevo. Mi mancavano informazioni fondamentali per decodificare ambiente e comportamenti. Non sapevo di essere ebreo, non immaginavo cosa volesse dire ‘ebraismo’, né cosa fossero i non ebrei rispetto a me. Oggi ricordo quei momenti con un misto di tenerezza e adrenalinica tensione”.
L’ebraicità, per quanto influenzi la vita, spesso però non diventa ragione o sentimento d’appartenenza. Bruno Osimo racconta: “La mia identità ebraica è difficile da delimitare. Non m’identifico con la vita comunitaria né con le sue faccende politiche né tantomeno con l’osservanza religiosa. La mia identità è culturale e non confessionale. Provo un curioso e ambivalente senso di estraneità. Il fatto è che mi sento estraneo sia tra gli ebrei che là fuori, nel vasto mondo. Qualche tempo fa un conoscente, molto gentilmente, mi ha invitato a cena con l’intento di coinvolgermi nelle faccende ebraiche. Eravamo quattro coppie. Hanno parlato fitto fitto per tutta la cena di questioni interne alla comunità milanese di cui non capivo assolutamente nulla. Il cibo però era squisito”.
C’è chi invece nell’esercizio della scrittura creativa ha riscoperto le proprie radici ebraiche. È il caso di Daniela Dawan, avvocato e romanziere, autrice di Non dite che col tempo si dimentica (Marsilio Editore). Daniela, originaria di Tripoli, trasferisce nelle pagine del libro innumerevoli sensazioni quotidiane mutuate dalla propria appartenenza.
Gli anni della scuola ebraica hanno lasciato in lei una gioiosa memoria: “Ricordo con tenerezza gli insegnamenti, quel rigore alla scrittura, lo studio sistematico. C’era un continuo stimolo intellettuale, le discipline si incrociavano tra loro e la cultura veniva proposta e insegnata con profonda enfasi”. Dawan ci spiega come però non è per quell’ebraismo “raccontato” tra le mura di via Sally Mayer che è nata in lei una coscienza ebraica. In realtà è stato attraverso il confronto esterno, tramite la conoscenza di culture e persone diverse.
Scrittura e radici
Negli anni ha sentito, con un po’ di nostalgia, la necessità di richiamare a sé quei valori e quella tradizione già apprese in passato; parliamo della libertà umana, della dignità e, soprattutto, del rispetto insegnati anche dall’ebraismo. “Scrivere un romanzo in cui la cultura ebraica è integrata nel contesto è stata un’esperienza di crescita personale, mi ha insegnato ad ascoltare gli altri, ho imparato quella sorta di fantasiosa curiosità che scaturisce dalla narrativa”.
Ma è con la diffusione e la spiegazione di questa scia di valori che l’ebraismo ha modo di essere pienamente compreso nel mondo.
Miro Silvera, autore di numerosi testi tra cui Cinema&Video Terapia (Salani) e Il passeggero occidentale (Ponte alle Grazie), attraverso le pagine dei suoi libri si presenta come il messaggero di una conoscenza che ha viaggiato da Aleppo, in Siria, fino a qui. “È stato forse a causa della tradizione familiare, di una storia narrata e tramandata, che ho sentito negli anni il richiamo verso la cultura ebraica”.
Miro ricorda quando il padre cercava d’insegnargli l’ebraico, e lui, ragazzino un po’ ribelle, si rifiutava. “Col tempo ho appreso che il compito di noi scrittori ebrei è quello di far conoscere il nostro popolo e la nostra cultura. C’è una tale ignoranza intorno a noi e questa ignoranza genera pregiudizio. Che è sempre pericoloso”. Solamente le parole sono “il giusto mezzo per combattere e difendere i propri ideali, i propri valori”.
Ogni piccola esperienza, ogni immagine ed ogni ricordo d’infanzia sono diventati, per questi tre scrittori “milanesi”, frammenti di una storia. La loro penna scorre sull’onda delle memorie, mostrando l’eco dell’identità che accomuna il popolo ebraico, anche quando è disperso o “fuori luogo”, eterogeneo, talvolta persino ottuso, ma sempre con un immancabile “jeu d’esprit”.