Una campagna per l’Hashomer Hatzair

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L’importanza dei movimenti giovanili.

Basta osservare l’attuale classe dirigente ebraica in Italia (e spesso anche all’estero) per capire che la stragrande maggioranza (rabbini, consiglieri, segretari, presidenti di associazioni) si è formata in uno dei due movimenti giovanili presenti oramai da più di mezzo secolo: l’Hashomer Hatzair, sionista e socialista e il Benè Akiva, sionista e religioso.

Oggi da Israele arrivano sempre meno fondi per le attività che oltre a formare una forte coscienza ebraica, indirizzano i ragazzi verso l’alià in Israele. Particolarmente critica la situazione dell’Hashomer che a Milano domenica 13 gennaio ha organizzato un concerto di raccolta fondi. Per tutti coloro che non sono riusciti ad intervenire o vorranno aiutare anche in seguito, anche con piccole cifre, indichiamo sotto gli estremi del conto corrente per un bonifico che aiuterà non solo i ragazzi di oggi ma anche i dirigenti di domani.

La Newslette Kolòt ha lanciato una campagna di sostegno,cui Mosaico ha deciso di aderire; ha chiesto a ex-hashomeristi di scrivere che cosa è stato per loro il movimento. Il primo ad intervenire è stato Emanuele Fiano, deputato PD alla Camera.
Continuiamo con Gabriele Eschenazi, giornalista RCS.

Valori ebraici e valori universali

“Paam shomer, tamid shomer” (Una volta shomer, per sempre shomer) si diceva spesso al movimento. Con queste parole si voleva sottolineare come una volta assimilati gli ideali dell’Hashomer Hatzair questi non si potessero più perdere. In quest’idea c’era certamente una buona dose di sano fanatismo giovanile, ma anche una buona dose di verità come oggi avverto a trent’anni di distanza. Pochi di noi, ex-haverim, vivono oggi in Israele, ma la lezione dell’Hashomer, secondo me, non è andata perduta per questo. In ognuno di noi sono rimasti profondi valori ebraici ed umani che ci guidano nelle nostre diverse esperienze di vita.

La forza ideologica di questo movimento è sempre stata quella di combinare valori ebraici con valori universali. Un esempio su tutti il nostro modo di festeggiare le feste ebraiche. A Hanukà accanto alla candela contro l’antisemitismo c’era sempre anche una candela per ricordare le tragedie del mondo. A Pesach la celebrazione del Seder prevedeva accanto al ricordo della schiavitù in Egitto anche il ricordo della schiavitù nera negli Stati Uniti. E se nei nostri piani di lavoro da una parte non si mancava di sottolineare il valore rivoluzionario del sionismo per il popolo ebraico, dall’altra ci si impegnava a ricordare il cammino dell’uomo attraverso tutte le sue rivoluzioni, così come nel parlare di odio antiebraico non ci si dimenticava di ricordare e studiare tutte le altre minoranze vittime di discriminazioni come armeni, curdi, rom.
Ma non meno importante nell’eredità shomristica è l’aspetto umano. Si spendevano serate a parlare di noi stessi, a criticarci e a a sostenerci l’un altro. Fra di noi esisteva lo sforzo sincero di comunicare, di credere che fosse possibile migliorarci l’un l’altro e sono convinto che in molti casi ci siamo riusciti.

La responsabilità che ragazzi più grandi si assumevano nei confronti di ragazzi più piccoli era molto formativa. Sentirsi investiti di responsabilità educative constringeva a essere coerenti con le proprie idee, a farsi spesso esami di coscienza. Bambini di dieci anni e ragazzi di 18 anni nello stesso ken, nello stesso campeggio trovavano modo di divertirsi insieme, di condividere una vita comunitaria. Se questo avveniva, significa che davvero c’erano ideali e forti radici ebraiche che univano, che davano un senso a quel piacere di riunirsi due o più volte alla settimana in una casa comune.

Poche delle persone che hanno vissuto intensamente la vita del movimento potrebbero negare oggi di non avere ancora dentro di sè un po’ di quegli ideali. Sono convinto che tutti noi ex-shomrim non saremmo quello che siamo senza il movimento sia sul piano ebraico che umano.

Per me sono passati trent’anni e ho quindi parlato dell’Hashomer Hatzair al passato, ma ciò non significa che abbia fatto il suo tempo tant’è vero che esiste ancora oggi ed evidentemente risponde a esigenze reali. L’Hashomer degli anni ’70 si giovava di un clima, dove la ricerca di ideali tra i giovani era un bisogno diffuso. Oggi tocca confrontarsi con un vuoto di idee e valori talvolta preoccupante. Ma oggi come allora dal tema dell’identità ebraica non si sfugge e, l’Hashomer insegna, la risposta non può essere solo religiosa. Contro l’assimilazione la scelta sionista rimane in primo piano, ancora di più oggi che Israele è un paese moderno e in pieno sviluppo, ma non è da trascurare neanche il bisogno di creare nei giovani una coscienza ebraica tale che li spinga a rimanere impegnati nelle comunità ebraiche sia sul piano sociale che culturale.

L’indebolimento dell’Hashomer, come di ogni altro movimento giovanile, significa indebolimento progressivo delle comunità ebraiche, che rischiano di ritrovarsi meno pluraliste e senza un ricambio generazionale.

Shomrim Hazak!


Gabriele Eschenazi

Fratelli per sempre

Ho iniziato ad andare all’Hashomer di Milano circa verso gli otto anni, era il 1971, il primo giorno spaccai una porta a vetri del Ken di Via Torino con la testa, fu in quell’occasione che tra l’altro conobbi Gabriele Eschenazi; mio fratello Andrea ci andava già da anni con mia grande invidia; per la verità, per un’occasione spiacevole ero già stato qualche giorno al campeggio di Fornaci di Barga del 1970, dove Andrea aveva avuto un grave incidente, l’altro mio fratello Enzo, il maggiore, aveva a quell’epoca già fatto l’Alià, pure lui passando dagli albori del movimento a Milano. Verso i dodici anni, nel 1975 dunque, incominciammo a darci appuntamento al cosiddetto angolo; l’angolo tra via Sally Mayer e via Arzaga il Venerdì, alle 15 mi pare, per poi andare in ken insieme, in Via Giovannino de Grassi 6. Zona San Vittore. Ormai eravamo “grandi”, ci muovevamo da soli. Ci vedevamo con Rita, che abitava li accanto, con Davide che abitava pure lui a 50 metri, con Riki, con il quale abitavamo nello stesso palazzo, con Luca, che arrivava da Via San Gimignano.

L’Hashomer fu una grande magnifica corsa. Allegra, particolare, unica. Era un posto alternativo alla casa dalla quale ognuno di noi veniva. Era un luogo di indipendenza. Si parlava di ebraismo, di socialismo, di cassa comune, si dormiva in tenda, maschi e femmine, si ragionava di sionismo e di kibbutz, di agricoltura e di feste ebraiche vissute in maniera nuova. Si conoscevano ragazzi e ragazze ebree di altre città a noi grosso modo prima sconosciute come comunità; oppure delle altre grandi Comunità come Torino o Roma soprattutto.

Una corsa che ha attraversato gite, shomriot, viaggi in Israele, campeggi invernali, estivi, campeggini, messibbot, hugghim, sedarim, yeshivoth, peuloth. Tutto l’armamentario di riunioni con quei nomi prima sconosciuti che facevano molto linguaggio da iniziati. L’hashomer era Mifkad, Hulzot shomrith, rikudei am, peulà hevratì, mifkad esh, hug di zofiuth. C’era un’agenda settimanale ed annuale delle nostre attività. Il venerdì e il sabato pomeriggio e sera quand’eravamo a Milano, le gite di domenica qualche volta, i seminari in primavera, i campeggi estivi ed invernali. Poi c’erano i nomi delle località dei campeggi che ritmavano l’anzianità di tutti noi, chi aveva cominciato a Sestola, chi a Piazzatorre chi a Teglio quelli invernali, chi a Radda, a Cellole o a Visso quelli estivi.

L’Hashomer fu, e mi auguro sia ancora, una grande scuola di maturazione e contemporaneamente un luogo dove divertirsi come pazzi. Un luogo dove imparare a farsi delle domande. Su se stessi innanzitutto, sul proprio ebraismo, su Israele, sulla Shoah, sull’essere in Golà, sul rapporto tra tradizione e cambiamento. Erano anni in cui a Milano o a Roma o a Torino esplodeva la contestazione studentesca prima e poi crescevano il terrorismo, le molotov e le P38. Io credo che il ken abbia funzionato anche come antidoto da quelle illusioni terribili di poter fare la rivoluzione in casa, costi quel che costi. Noi un pochino di rivoluzione, per modo di dire, ce la siamo fatti, scegliendo di non essere ebrei solo di nascita o per continuazione passiva, scegliendo poi ognuno anche la propria strada, chi credente, chi no, chi osservante, chi laico, chi sionista, chi in Israele, chi in Italia, chi nel mondo. Generalmente, nella stragrande maggioranza dei casi una strada di coscienza ebraica, di consapevolezza delle proprie radici e dei propri possibili scenari. Dalla rivolta del Ghetto di Varsavia all’Alià nel Nord della Galilea, discutendo di Dov Ber Borohov, Martin Buber, Avraham Beit Yoshua o Michael Walzer, ognuno ha percorso la propria strada.

Io penso che l’Hashomer sia stato un terreno fertile dove molti semi hanno attecchito, ognuno crescendo secondo le proprie possibilità e inclinazioni, raramente lasciati a se stessi. Per questo è importante che questa casa dell’ebraismo milanese e italiano, una delle sue possibili case, continui ad esistere e a crescere, per qualcuno che sin da giovane continui a farsi domande sul proprio essere ebreo. E continuo a viverlo.

Le mattine che accompagno i miei figli alla scuola ebraica di Milano, passo sempre accanto allo stesso angolo dove ci trovavamo con Rita, Davide, Luca e Riki nel 1975. Luca da 24 anni abita in un Kibbutz, nel nord della Galilea, in un bellissimo posto dove d’inverno fa molto freddo, e dove l’Estate scorsa molte volte hanno dovuto correre nei rifugi per le katiushot che arrivavano da Hezbollah.

Con gli altri ci vediamo spesso, i nostri figli vanno nelle stesse classi alla scuola ebraica, noi dopo averli accompagnati beviamo il caffè insieme anche con Marco, Sandro, Mosie, Claudia, Gad e molti altri, e ognuno racconta un pezzettino della sua vita di adesso; vite così diverse ma con un tratto di fratellanza speciale che non si cancella.

Emanuele Fiano

Per offerte:
Hashomer Hatzair
Banca BIPOP CARIRE – Sede Milano
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