di Ilaria Myr
La sala è gremita di ragazzi: il sindaco della loro città parla dell’importanza di ricordare, affinché questo “non accada mai più”; parla dei 6 milioni di ebrei assassinati durante la Shoah e del pericolo che questo possa accadere ancora. I ragazzi sono in silenzio, ma non tutti ascoltano: alcuni sbadigliano, altri guardano il cellulare, altri alzano gli occhi al cielo. «Basta parlare di Shoah!, non se ne può più – si dicono -. E gli altri genocidi, allora? E quello che fanno oggi gli israeliani ai palestinesi?», borbottano.
È un quadro che potrebbe sembrare esasperato nei toni e nelle formule, ma è esattamente quello che sempre più spesso capita fra i ragazzi delle scuole italiane, che dal 2001 celebrano il Giorno della Memoria al fine di ricordare, come recita la Legge 211 del 2000, “la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le Leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati”.
Un appuntamento, quello del Giorno della Memoria, spesso criticato anche da opinion leader e intellettuali, che lo vedono come una ritualizzazione sempre più vuota di significato: «una cerimonia stanca – ha scritto Elena Loewenthal nel discusso libro Contro il giorno della memoria (add editore, 2014) -, un contenitore vuoto, un momento di finta riflessione che parte da premesse sbagliate per approdare a uno sterile rituale dove le vittime vengono esibite con un intento che sembra di commiserazione, di incongruo risarcimento». Ma da molti altri, il Giorno della Memoria è considerato invece come un importante momento per parlare di Shoah e per fare cultura su un argomento di cui si pensa di sapere ormai tutto, ma di cui in realtà non si conosce che una piccola parte. «Il Giorno della Memoria ha il merito di parlare di un tema che prima non era trattato – sostiene lo storico e docente universitario Alberto Cavaglion, che inizialmente si era opposto all’istituzione di questa giornata -, e molte delle iniziative che vengono sviluppate nelle scuole sono lodevoli e di buon livello. Certamente c’è il rischio di ripetizione e di saturazione nei ragazzi – è successo lo stesso con le celebrazioni del 25 aprile -, ma è compito degli insegnanti fare sì che questo non subentri. Rimane comunque un’iniziativa che è giusto che esista e che produce in alcuni casi buoni risultati. Forse sarebbe stato meglio scegliere una data italiana, come il 16 ottobre, per fare capire meglio la responsabilità del nostro Paese nello sterminio. E per il 70° anniversario sarebbe bene che il Giorno della Memoria e quello della Liberazione venissero celebrati insieme».
Opinioni contrapposte, che ci portano oggi, in occasione della 15 edizione del Giorno della Memoria e del 70° anniversario della liberazione del campo di sterminio di Auschwitz a riflettere su un tema tanto ampio quanto complesso: come si può oggi insegnare la Shoah, senza creare noia, sbadigli e saturazione nei ragazzi, sempre più “bombardati” mediaticamente sul tema? Quali modalità devono utilizzare gli insegnanti di tutti gli ordini scolastici – primarie, secondarie di primo e secondo grado – che ogni anno si trovano a dovere per legge celebrare questa ricorrenza? Per di più, in classi sempre più multietniche, dove a un antisemitismo dettato dall’ignoranza si aggiungono in molti casi preconcetti legati a un antisionismo sempre più diffuso, soprattutto fra i ragazzi di religione musulmana?
A queste ed altre domande proveremo a rispondere in questa inchiesta, che nasce non solo dal confronto con esperti dell’argomento, ma anche con insegnanti dei vari ordini, incontrati durante un seminario organizzato il 27 novembre a Milano dal CDEC proprio sulla didattica della Shoah. Mentre a Roma si è tenuto, il 15 dicembre, il Simposio Europeo “Stabilire una rete europea per l’insegnamento sull’educazione alla Shoah”.
L’EMOZIONE NON BASTA
Da ormai 15 anni, dall’età di sei anni, i ragazzi parlano di Shoah in classe. Ma come far passare delle informazioni storicamente corrette e contestualizzate in un mondo che ci riempie di input di vario tipo – film, video, immagini, testi – e in cui, soprattutto in occasione del Giorno della Memoria, il “bombardamento mediatico” raggiunge livelli impensabili? Non c’è canale tv che non trasmetta qualcosa sul tema, spesso con toni lacrimosi e puntando solo sulle emozioni, tanto che c’è chi parla proprio di “settimana” o addirittura “mese” della memoria, in cui si assiste a una vera e propria gara fra i vari media a chi propone la “novità”. E che dire della Rete, strumento pieno di opportunità ma anche di rischi, primo fra tutti quello di una conoscenza parziale, decontestualizzata, spesso scorretta?
Il risultato è che i ragazzi pensano di sapere già tutto, di non avere più nulla da imparare, soprattutto quelli delle scuole superiori di secondo grado, a cui, come spiega Bruno Rossi, insegnante di filosofia in un liceo nella provincia di Brescia, «proprio per questo bisogna spiegare e ancora spiegare senza stancarsi quello che è successo. Perché solo con le conoscenze si riesce a interessare i ragazzi e a fare capire loro, per quanto possibile, l’enormità e la specificità della Shoah. Puntare solo sulle emozioni genera la lacrima, ma poco di più».
La presunzione di conoscere già tutto è invece meno comune fra gli studenti della secondaria di primo grado, dove le nozioni sono più vaghe e dove la tanto temuta “saturazione” nei confronti della Shoah non c’è ancora. «Non sanno quello che è davvero successo – spiega la professoressa Jannuzzi, ex insegnante della Scuola ebraica di Milano e ora docente in una media statale, che proprio nella nostra scuola ha cominciato a interessarsi di Shoah -. Hanno tante informazioni, ma pochi strumenti cognitivi per elaborarle. Per questo è importante costruire bene il contesto storico, leggendo ad esempio documenti dell’epoca o facendo lavori nell’archivio della propria scuola».
«Però Stalin ha fatto più morti». «Gli ebrei erano ricchi, e quindi erano un pericolo». «Ma gli ebrei oggi fanno lo stesso ai palestinesi». Sono solo alcune delle riflessioni che gli insegnanti delle secondarie di secondo grado e licei, – mai quelle delle medie -, ci riportano come frequenti fra i ragazzi, e che fanno capire quanto gli ostacoli più grandi, quando si insegna la Shoah, siano l’ignoranza, i pregiudizi e l’antisemitismo. «Nella provincia di Brescia in cui insegno non ci sono ebrei e non esiste una sinagoga, con il risultato che i ragazzi non sanno cosa sia un ebreo – spiega Bruno Rossi, insegnante in un liceo nel bresciano -. Ma quello che viene sempre fuori è il classico pregiudizio che gli ebrei sono tutti ricchi: che lo erano allora come anche oggi. Te lo dicono non perché convinti antisemiti, ma perché ignoranti, e quando li si fa ragionare – per esempio sul fatto che un bambino ebreo andava in camera a gas perché ricco?! -, capiscono l’infondatezza di quello che dicono. Ma questo denota che la gente comune in Italia, così come in Europa, una punta di antisemitismo ce l’ha sempre». Proprio per questo motivo, molti docenti, prima ancora di parlare di Shoah, premettono un approfondimento sull’identità ebraica, magari andando anche a visitare una sinagoga.
IL FATTORE MULTIETNICO
C’è però anche un altro tipo di ignoranza tutto contemporaneo, legato alla composizione sempre più multietnica delle classi: il risultato è che ragazzi che vengono da ogni parte del mondo, magari con una conoscenza limitata della lingua italiana, si trovano oggi a dovere studiare le materie secondo il programma previsto dal Ministero dell’Istruzione. «Ma che cosa rappresenta per un ragazzo cinese parlare di Cristoforo Colombo, di Leopardi o di Gesù Cristo?, – si chiede Michele Sarfatti del CDEC -. Allo stesso modo, anche la Shoah riguarda la storia europea e italiana, che i giovani che vengono da lontano non capiscono e che si trovano a dovere studiare». Con una differenza, però, sottolinea David Meghnagi, psicologo e direttore del Master sulla didattica della Shoah: «la Shoah per la sua “unicità” nella storia del Novecento e rispetto a ogni evento precedente della storia umana, è una tragedia che non riguarda solo ed esclusivamente gli ebrei e l’Europa. La tragedia della Shoah pone delle domande non solo per il passato più recente, ma per il futuro dell’umanità. Studiare l’Olocausto è una necessità etica, politica e di conoscenza. Ciò che è accaduto, può ripetersi, anche se in forme diverse».
Diverso è però il discorso per i giovani che vengono dai Paesi musulmani, e in particolare da quelli maghrebini, per i quali parlare di Shoah suscita subito una reazione di rifiuto. Il conflitto arabo-israeliano ha infatti complicato ulteriormente il parlare di Shoah, che viene sempre più spesso tirata in ballo per paragoni storicamente e umanamente inaccettabili, accostata in modo fuorviato alla pur penosa questione palestinese. «Quando affronto la Shoah i ragazzi di origine araba (quelli italiani no, non sanno neanche la differenza fra le varie religioni), mi chiedono sempre di andare oltre la fine della guerra, e parlare di Israele e palestinesi – racconta una docente dell’istituto tecnico/chimico Molinari di Milano -. Io dunque preciso sempre che quando parliamo di Giorno della Memoria trattiamo un certo contesto storico che è quello del nazismo, del fascismo e della Seconda guerra mondiale. E quando, in quinta, affronto anche la nascita di Israele e del conflitto con i palestinesi, sottolineo sempre che ciò non nega quello che è accaduto durante la Shoah».
RENDERE VICINO IL LONTANO
Ma a che cosa deve mirare una didattica della Shoah? E quali strumenti si devono utilizzare perché l’insegnamento sia efficace? «I ragazzi di oggi non possono avere memoria di quello che è accaduto perché non l’hanno vissuto – spiega Michele Sarfatti -. Quello però che possono avere è memoria dell’insegnamento che viene loro impartito sulla Shoah. Per questo il fine di tutte le iniziative è fare sì che loro recepiscano quello che è accaduto e poi, successivamente, ne traggano degli insegnamenti. La conoscenza è finalizzata a sapere, e a essere consapevoli di cosa esattamente è potuto avvenire. Anche perché la Shoah è un fenomeno creato e messo in atto dall’uomo, e dunque – anche se non nelle stesse forme e non ai danni delle stesse persone – è potenzialmente ripetibile».
Fondamentale è dunque porre estrema attenzione al contesto storico in cui tutto ciò si è sviluppato e a come è nato e si è evoluto il meccanismo che ha poi portato alla Shoah: avere cioè ben presente da un lato il pregiudizio antigiudaico nel corso dei secoli e, dall’altro le prime Leggi discriminatorie che hanno costituito il primo passo verso lo sterminio. Ma anche la sua modernità di crimine industrializzato, evidente nelle tecniche di sterminio usate. «Tutto ha avuto inizio in quello che era considerato il Paese più moderno d’Europa – continua Sarfatti -. Ma moderno è anche il carattere totalizzante e totalitario dello sterminio degli ebrei: nelle vecchie guerre di religione anche i più umili potevano scegliere di convertirsi, scampando così alla morte, mentre durante la Shoah nessuno era esentato. E poi la pianificazione dello sterminio, con i treni, che portavano lontano, e le camere a gas: tutto ciò è l’apoteosi della contemporaneità».
Insegnare la Shoah, dunque, vuole dire riflettere sulle particolari dinamiche di psicologia di massa che si sono verificate allora, ma che, proprio perché “figlie dell’uomo”, potrebbero riproporsi. Anche perché, come spiega bene David Meghnagi: «Un atto educativo funziona se l’acquisizione di determinate conoscenze è estesa ad altri ambiti dell’esistenza. Nel caso specifico, lo sviluppo di valori imperniati su una cittadinanza condivisa, basata sui valori della libertà, del rispetto della persona e del rifiuto del razzismo e dell’antisemitismo, in qualunque forma esso si manifesti».
Attenzione, però. «La Shoah non può diventare un abito buono per tutte le stagioni per educare i ragazzi a qualunque tema riguardi la convivenza civile, l’uguaglianza o il rispetto delle regole -, ammonisce Alessandra Minerbi, docente in una scuola milanese secondaria di primo grado, organizzatrice, con il CDEC, del recente seminario di didattica -. Per questo la contestualizzazione storica è la base, su cui poi creare percorsi di riflessione».
SENTILO SULLA TUA PELLE
Attualizzare: una sfida difficile, specie se si tratta di far sentire ai ragazzi che quei fatti, accaduti 70-80 anni fa, riguardano anche loro, nativi digitali, e che quelle foto sbiadite che vedono sui libri non sono solo “cimeli” storici, ma fonti preziose per qualcosa che li tocca, insegnamenti attuali di cui anche loro si possono giovare. Che quando si dice che “gli ebrei non potevano ascoltare la radio”, significa che veniva negato loro un diritto basilare, quello di essere connessi con il mondo, in tempi in cui tv e pc non esistevano. Fondamentale diventa dunque fare “parlare” la Storia ai ragazzi, facendone loro percepire gli aspetti che più sentono vicini alla propria vita. «Ai maschi, ad esempio, si potrà raccontare dell’espulsione degli ebrei dal mondo sportivo – continua Sarfatti -, mentre con le ragazze si potrà lavorare bene sul Diario di Anna Frank, un’adolescente loro coetanea, che possono sentire molto vicina. Insomma, trovare il canale giusto, che li aiuti a recepire un fatto così enorme e quasi inimmaginabile; e smantellare il muro di incomprensione preventiva».
L’età dei ragazzi e la loro preparazione storica è fondamentale. Ma attenzione a non iniziare troppo presto. «Nella scuola primaria la Shoah va proposta ai bambini di V o IV, o di terza ma particolarmente maturi e abituati all’ascolto e all’approfondimento – spiega Raffaele Mantegazza, Professore associato di Pedagogia Interculturale alla facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Milano Bicocca -. A questi ragazzi presenterei storie che prendano la Shoah come sfondo e narrino poi episodi di resistenza, di amicizia, di amore, di gioco, anche di morte, purché sia inserita in un contesto resistenziale, di salvezza e di sopravvivenza». Nella scuola secondaria di I grado, invece, è possibile iniziare un percorso che porti i ragazzi a una sia pur parziale identificazione con i personaggi che hanno vissuto la Shoah. «Ragazzini che stanno crescendo e che si vergognano a fare la doccia nudi nello spogliatoio di calcio – prosegue – non possono essere indifferenti di fronte alla umiliazione della spoliazione imposta ai deportati». Mentre in quella di II grado si potrà lavorare sull’approfondimento critico, analizzando numerosi aspetti: «il linguaggio del Terzo Reich (la LTI di Levi), le strategie di potere, il lavoro sul corpo, la retorica maschilista, la costruzione degli stereotipi, l’antisemitismo hitleriano figlio di quello cristiano, ma non solo di esso: tutti questi temi devono essere giocati a partire dalla sensibilità dei ragazzi e delle loro esperienze quotidiane», conclude Mantegazza.
E SE FOSSE CAPITATO A TE?
Una funzione poi molto importante è quella dei “luoghi della memoria”, in cui si consumò la tragedia della Shoah; fra questi, da un anno figura anche il Memoriale della Shoah di Milano, realizzato al Binario 21 della Stazione Centrale, da dove partivano i convogli per Auschwitz. «Sicuramente l’apertura del Memoriale ha ravvivato la fiammella dell’interesse nei confronti di questo argomento – spiegano le volontarie dell’Associazione Figli della Shoah, che si occupa delle visite guidate -. Basta guardare i numeri delle visite: l’anno scorso abbiamo avuto fra 5 e 7 mila ragazzi. Mentre quest’anno abbiamo già prenotati circa 1200 studenti per gennaio 2015, tutto il mese di febbraio è completo, e stiamo già fissando per marzo e aprile. Ci sono perfino scuole, come il Marconi o il Primo Levi, che portano 9 classi». Qui le guide accolgono gli studenti davanti al Muro dell’Indifferenza, e li portano a riflettere su questa parola. Poi si passa a una contestualizzazione storica del periodo, parlando delle Leggi razziali, dell’8 settembre, e su come i nazisti individuarono proprio quel luogo in cui essi si trovano come ottimale per mettere in atto la deportazione degli ebrei del nord Italia. Ma è la mostra situata nella navata centrale a raccontare le storie dei singoli, delle persone che viaggiavano in quei convogli come bestie. «Quello che però impressiona di più i ragazzi sono i quattro vagoni – continuano – in cui li facciamo entrare e riflettere sulle condizioni disumane di affollamento, di promiscuità, di mancanza totale di igiene, in cui hanno viaggiato i deportati. E poi c’è il traslatore, che portava su i vagoni, con quel cartello “È ‘severamente vietato il trasporto delle persone”, che parla da solo…. Facciamo, insomma, capire, attraverso il luogo, che questo è avvenuto qui, a Milano, nella loro Italia, nella loro città, e non solo in una remota Polonia».
Ci sono poi i “Viaggi della Memoria” ad Auschwitz, promossi da molti Comuni italiani, sulla cui utilità però non mancano le opinioni critiche e, soprattutto, una riflessione da parte delle istituzioni preposte. «Il viaggio ad Auschwitz deve essere il culmine di un lavoro sulla Shoah e non, invece, come spesso accade, il punto di partenza – continuano i Figli della Shoah -. Anche perché ad Auschwitz quello che rimane da vedere è ben poco; e se non sono preparati prima i ragazzi tornano quasi delusi, senza avere imparato nulla. E poi c’è la questione, non trascurabile, che ad Auschwitz si devono utilizzare le guide polacche, che spesso si sono dimostrate non all’altezza, e in alcuni casi perfino antisemite… Perché invece, non si va più spesso alla Risiera di San Sabba a Trieste? Che oltre a essere più vicina, è anche un luogo italiano, che fa capire la responsabilità del nostro Paese?». Tutto ciò di cui si è parlato finora fa capire chiaramente una cosa, semplice ma affatto banale: che in tutto questo percorso il ruolo più importante è quello dei docenti, veicolo e fautori di queste conoscenze. Perché, se si vuole che questo insegnamento abbia un senso, come dice Raffaele Mantegazza, «i primi a credere che la Shoah parla di noi dobbiamo essere noi insegnanti: leggendo la sua presenza nei nostri testi, nelle nostre lezioni, nelle nostre cattedre, nelle nostre metodologie, nel modo in cui ci rivolgiamo ai nostri allievi. In noi stessi». Purtroppo, invece, non sempre è così, e, anzi, se da un lato vi sono docenti estremamente motivati, che svolgono un lavoro importante sulla Shoah partendo anche dall’identità ebraica, sono anche molto frequenti quelli che si limitano a “rispettare” il Giorno della Memoria, magari facendo vedere un film e finito lì. Inoltre, esiste un forte gap fra nord e centro Italia, in cui sono attive diverse associazioni ed è più facile per i docenti tenersi aggiornati su questi temi, e dall’altro il sud, «dove gli insegnanti sono lasciati soli – spiegano dai Figli della Shoah -. Per questo è importante che le testimonianze dei sopravvissuti, che si tengono dal 27 al 30 gennaio al Conservatorio a Milano, siano visibili anche in streaming su internet». In questo quadro la continua formazione dei docenti diventa fondamentale per garantire un insegnamento di qualità. Addirittura, secondo Michele Sarfatti, «dovrebbe essere parte del programma ministeriale di aggiornamento, perché c’è un bisogno di un’offerta ripetuta nel tempo». E da cui nasce tutto.
Meghnagi: all’Università, le parole giuste
Intervista al Direttore
del Master in Didattica della Shoah
Colmare un vuoto formativo che ha ricadute sull’attività didattica nelle scuole e sul modo in cui si fa informazione: con questo obiettivo dieci anni fa è nato all’Università Roma Tre il primo e unico Master sulla Didattica della Shoah in Italia, per volontà dello psicologo David Meghnagi. «Il Master è alla sua decima edizione. L’obiettivo era di creare all’interno dell’università uno spazio di formazione di eccellenza, rivolto a non più di quindici studenti per anno, con un percorso di formazione interdisciplinare, storia, sociologia, psicologia del profondo. Arte, letteratura, filosofia e religione. L’idea era di colmare un vuoto formativo che ha ricadute sull’attività didattica e sull’informazione. Abbiamo contribuito a formare un centinaio di studiosi, oggi incardinati nel sistema universitario. Un progetto formativo funziona se ha chiari gli obiettivi. Una buona didattica, nella scelta dei temi, deve sempre partire da un’esperienza concreta. Ma perché un atto educativo funzioni ci vuole una forte intenzionalità finalizzata alla reciprocità. Un atto educativo funziona se l’acquisizione di determinate conoscenze è estesa ad altri ambiti dell’esistenza. Nel caso specifico lo sviluppo di valori imperniati su una cittadinanza condivisa, basata sui valori della libertà, del rispetto della persona e del rifiuto del razzismo e dell’antisemitismo, in qualunque forma esso si manifesti.
Quali sono oggi le criticità e le difficoltà legate alla didattica della Shoah?
La difficoltà è legata alla complessità dei temi. I docenti non hanno le cognizioni necessarie e sufficienti e gli studenti sono posti di fronte a eventi che mettono a dura prova le loro capacità cognitive ed emotive. In questa situazione molti insegnanti ricorrono alle soluzioni più facili e immediate, che restano però tali. Per esempio si proietta un film e finisce tutto lì. Ma la proiezione diventa al contrario un motore di sviluppo e conoscenza se è seguito da un approfondimento tematico che prenda in considerazione, sempre tenendo conto dell’età, il modo in cui è stato costruito, il fatto che è stato girato in un determinato anno e così via. A quel punto non siamo più solo di fronte all’impatto immediato di un film sul pubblico dei ragazzi, ma a una serie di domande che non sono scontate e che man mano si approfondisce l’argomento diventano sempre più complesse. Il film ha una storia, è stato scritto in un determinato periodo, privilegia alcuni temi, rispetto ad altri e così via. E l’Italia, checché se ne dica, in fatto di didattica è più avanti di molti altri Paesi occidentali.
Quanto e come la società multiculturale impatta sull’insegnamento della Shoah? E quanto il conflitto in Medio Oriente?
Le società europee sempre più sono caratterizzate dall’afflusso e dall’insediamento di popolazioni provenienti da aree lontane dai centri in cui si è consumato lo sterminio degli ebrei e, per storia, non percepiscono questa tragedia come loro. Si tratta di una falsa lettura, collegata al fatto che la Shoah è percepita come un problema che riguarda al più, gli ebrei e l’Europa. In realtà la Shoah per la sua “unicità” nella storia del Novecento e rispetto a ogni evento precedente della storia umana, è una tragedia che non riguarda solo ed esclusivamente gli ebrei e l’Europa. A parte il fatto che se le potenze dell’Asse non fossero state fermate a El Alamein si sarebbe consumata, con la collaborazione di volenterosi sostenitori locali, anche in Nord Africa e nel Vicino Oriente. Si pensi al colpo di stato filonazista in Iraq, all’azione del Muftì di Gerusalemme ricevuto da Hitler con tutti gli onori, alle trasmissioni antisemite in arabo da Berlino e Bari che identificavano i valori del nazismo con quelli dell’Islam. A parte questo, la tragedia della Shoah pone delle domande non solo per il passato più recente, ma per il futuro dell’umanità. Studiare l’Olocausto è una necessità etica, politica e di conoscenza. Ciò che è accaduto, può ripetersi, anche se in forme diverse. C’è un secondo elemento su cui riflettere. Saldandosi alla crescente ostilità del mondo arabo e islamico contro Israele e alla sua demonizzazione, questa falsa auto percezione è la fonte di un nuovo antisemitismo che non esita, come è avvenuto per l’Iran, a negare la realtà storica della tragedia, a presentarla falsamente come “un complotto” per colpevolizzare i popoli europei e dominare il Vicino Oriente. In questa nuova versione dell’antisemitismo, che si salda a quello più antico e demonizza la memoria della Shoah, è il terreno di una battaglia per la difesa dei valori che si sono affermati con la liberazione dei campi.
Giorno della Memoria: la Loewenthal parlava di saturazione, svuotamento di significato… Quali sono l’utilità e i rischi?
La memoria della Shoah è allo stesso tempo una memoria ebraica e una memoria dell’umanità. I due piani hanno importanti punti di contatto, ma non sono sovrapponibili. Se analizziamo gli ultimi 70 anni, noteremo che la memoria della Shoah e le sue rappresentazioni sono state in continuo movimento sia in ambito ebraico sia nella realtà più ampia. Nell’Est Europa, sotto i regimi comunisti, la Shoah era negata come fatto specificamente ebraico. La negazione serviva a nascondere le colpe del passato più recente. Allo stesso tempo era un’espressione dell’antisemitismo (declinato come antisionismo) nel presente. In Occidente la tragedia è stata lungamente declinata come la forma estrema di una lunga catena di distruzioni, di cui la Shoah era solo una manifestazione estrema di brutalità. In questa prospettiva la memoria dello sterminio aveva un ruolo subalterno rispetto a una narrazione che aveva altri centri di riferimento. La rappresentazione si modifica in profondità con il Processo Eichmann che per la prima volta mette in scena le vittime, su più ampia scala. È un cambiamento che segna un passaggio importante nella auto percezione collettiva. In questo complesso intreccio, il negazionismo e il nuovo antisemitismo, sono lo strumento per portare a fondo l’attacco contro i valori su cui poggia la società europea e occidentale dopo Auschwitz.
Il ruolo del Master?
Formare studiosi capaci di confrontarsi con aree diverse del sapere, facendole dialogare dall’interno, e che a loro volta formino altri studiosi contribuendo a rinnovare il sistema di formazione. Se i futuri insegnanti hanno avuto la possibilità di acquisire, nel loro percorso formativo, una conoscenza rigorosa dei problemi, diventerà più facile per loro evitare l’appiattimento della didattica.
Inoltre: con un campione i ragazzi di scuole medie di Firenze, Roma e Torino ho avviato un progetto con la professoressa Claudia Hassan, sulla ricostruzione della memoria famigliare intrecciandola con la storia durante l’occupazione nazista. I ragazzi hanno intervistato i nonni e i genitori, si sono documentati leggendo dei testi chiave sui cui hanno scritto le loro osservazioni. Alla fine del percorso ogni gruppo ha presentato i suoi lavori, confrontandosi con classi di altre scuole. Alla fine di un anno di lavoro i ragazzi avevano letto almeno 5 libri di classici, visto film adatti alla loro età, che avevano poi discusso in classe. Le conoscenze acquisite non erano limitate all’argomento. Coinvolgevano molte altre aree. Non solo. Sono stati rafforzati i legami tra le generazioni, sviluppata l’empatia e il pensiero critico.
In questo quadro il rapporto con i ragazzi delle scuole ebraiche assumeva il carattere di un’esperienza condivisa, non di un “noi” contrapposto a un “voi” ma di un “noi” rispettoso e consapevole».
Liliana Segre: «Dico ai ragazzi: io ero come voi»
«Quando, dopo 45 anni di silenzio su quello che avevo vissuto, ho deciso di parlare, non avevo idea di come sarebbe andata: non avevo mai parlato in pubblico, mai insegnato, e quindi non sapevo se mi sarebbe uscita la voce, se mi sarei emozionata. Ma poi mi sono resa conto che quando parlo, la mia Shoah personale esce da sola, perché racconto semplicemente quello che mi è successo. Ed è il fatto che io dica “io c’ero, e avevo la vostra età quando ciò è accaduto” a colpire le migliaia di ragazzi davanti a cui parlo ormai da 25 anni ». L’esperienza di Liliana Segre nella trasmissione ai giovani di ciò che ha vissuto durante la Shoah dice molto sull’interesse e l’attenzione dei ragazzi nei confronti di questo argomento. «Gli atteggiamenti annoiati sono molto rari – spiega -, e comunque se ci sono, io dico ai responsabili di uscire dalla stanza. Ma accade molto di rado. Circa nove anni fa ho parlato davanti a 7500 ragazzi al PalaDoxa di Bologna: non volava una mosca. Così come a marzo a Pesaro, con 4.300 studenti».
A testimoniare questo interesse che non viene mai meno sono anche le migliaia di lettere che Liliana ha ricevuto negli anni, così come i lavori che le scuole fanno grazie alla sua testimonianza: un esempio su tutti è il progetto che ha vinto il concorso “I Giovani ricordano la Shoah” per la regione Marche, sviluppato dalla scuola elementare Odoardo Giansanti, che ha realizzato con i bambini un fumetto sulla storia personale di Liliana Segre, intitolato “Liliana e la sua stellina”. E lo sono anche i 1800 studenti che ogni anno riempiono il Conservatorio di Milano per ascoltarla, insieme ai pochi altri sopravvissuti: l’evento, organizzato dai Figli della Shoah, riscuote ogni anno un successo enorme sia in termini di prenotazione – a settembre c’è già il “tutto esaurito” – che di connessioni da scuole di tutta Italia alla diretta trasmessa sul sito del Sole 24 Ore.
Sicuramente l’interesse nei confronti dell’argomento è cresciuto da quando a scuola è stata introdotta dal decreto Berlinguer (n. 682 del 1996) la storia del Novecento – che prima non veniva trattata – e, successivamente, la legge che ha istituito il Giorno della Memoria. «Sono due iniziative che hanno fatto sì che si parli di questo argomento, che prima non veniva quasi menzionato – continua Liliana Segre -. Certo, c’è il rischio della ritualizzazione. Ma sono convinta che sia meglio avere un giorno come questo che non averlo proprio». Non mancano, però, le domande che denotano una profonda ignoranza dei ragazzi, ed è per questo che il lavoro degli insegnanti è fondamentale. «Come in qualsiasi disciplina, i docenti devono studiare, informarsi e documentarsi – spiega -. Anche perché, quando il mare si chiuderà sopra le storie di noi testimoni, saranno solo loro a poter trasmettere questa Storia».