di Reuven Ravenna
Si scrive e si dibatte, non solo nell’Italia ebraica, in misura crescente sull’identità e la problematica scottante delle Comunità. E’ preoccupante il deficit demografico, e, a piu’ di settanta anni della fine della Shoah, percepiamo acutamente le conseguenze dello sterminio di un terzo del Popolo di Israele. E nondimeno leggiamo, preoccupati, le statistiche dell’ “assimilazione”( preferisco il termine “acculturazione”), vale a dire la scomparsa graduale o netta della nostra specificità. Forse è un sintomo incoraggiante che ci si preoccupi della nostra persistenza e ci si “accapigli” sulle vie per perseverarla. Mi sembra che le voci, nel nostro interno, apertamente auspicanti una totale fusione con la maggioranza, e, non solo con il passaggio formale alla Religione dominante, in un mondo ampiamente laicizzato, siano piuttosto marginali e non rilevanti. Non è il caso di proclamare che sia auspicabile la selezione di “pochi, ma buoni”. Dobbiamo affrontare hic et nunc il quadro, con realismo e responsabilità, in un libero, ampio e coraggioso scambio di idee, senza preclusioni manichee, porgendo orecchi ed attenzione anche ai punti di vista lontani o diversi dalle nostre posizioni, per ponderare soluzioni largamente condivise. Arrivando al nocciolo, la realtà storica del nostro cammino millenario si puo’ sintetizzare in due punti basilari. La condizione, diciamo, fisica dell’ebreo e della collettività di cui fa parte o meno, e i “contenuti” della sua ebraicità, ereditati o riconquistati, in infiniti percorsi e con innumerevoli sfaccettature. E’ più che lecito, anzi improrogabile, concretizzare in un democratico dibattito l’organizzazione della collettività a livello comunitario o nazionale. Ben venga l’elezione di un Parlamento rappresentativo al massimo che riduca la governabilità degli addetti ai lavori, di ristrette elités al vertice della piramide. Accanto alla politica e alla amministrazione, è impellente il coinvolgimento delle forze intellettuali e spirituali più preparate e consapevoli per l’impostazione di un programma culturale e di attrazione dei “lontani”, con un linguaggio consono al nostro tempo, senza allontanarsi da un bagaglio di “contenuti”, secolare in Italia e altrove, in primis nello Stato ebraico.
In un mio vecchio scritto, ” I due poli della nostra esistenza”, pubblicato in un volume in onore di una nobile figura che ebbi come maetro di Ghemara’ presso il Beth Hakeneset italiano di Gerusalemme, l’Ing. David Kotlar z.l. – lituano, fervente talmudista e insieme appassionato cultore dell’Umanesimo rinascimentale e moderno – scrivevo: “il rapporto dialettico tra condizione esistenziale e creatività culturale (nell’accezione più ampia del termine) non e’ mai venuto meno, quasi che l’oppressione, la lotta, il martirio dell’uomo ebreo fossero intrecciati colla sua Torà, la sua opera letteraria, il suo pensiero teoretico…Nell’ oscurità della dispersione, tanto spesso illuminata dai roghi delle Inquisizioni e dagli incendi dei pogroms, la persistenza si è fatta più tenace proprio tramite le creazioni dello spirito, specchio dell’anima in un’ascesa a volte ritardata e ostacolata, ma non mai arrestata.”
Sia questa la sintesi tra l’operare e la rinascita culturale che caratterizzerà la collettività ebraica italiana nella nostra generazione per quelle future!