Il cantico dei Cantici di Norma Picciotto: il racconto di un desiderio che si rincorre

Arte

di Fiona Diwan

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Non guardatemi perché sono scura di pelle, poiché il sole mi ha abbronzata. I figli di mia madre litigarono con me, mi posero come custode delle vigne, io non sorvegliai la mia vigna. Il Cantico dei cantici 1/6

Un volo di colombe che si alza, inseguendo i filari di una collina ricoperta di vitigni. Una rosa rossa che si affaccia furtiva, in cima a una scaletta di muschio verde, tra i pampini bruni dell’uva matura. Un pianeta rosso (che sia davvero una fotografia miniaturizzata di Marte?) incastonato come una pietra preziosa tra gli acini scuri di un rigoglioso grappolo ancora sul tralcio, forse un attimo prima che venga colto. E’ con sensibilità e forza visiva che Norma Picciotto interpreta i versi del più celebre componimento poetico di tutti i tempi, il Cantico dei Cantici, dandogli forma visionaria nella serie di immagini di questa mostra, lavori realizzati sull’onda di un retentissement visivo, di un’eco poetica, che come una scia luminosa anima la smarginatura che i versi del celebre poema lascia su queste opere.

Nelle immagini di Norma Picciotto la vibrazione lirica si salda sul realismo visivo della campagna ubertosa e fa da sfondo al racconto di un desiderio che si rincorre. In queste immagini, i due amanti biblici non ci sono, non compaiono, ma compare la loro smarginatura, la loro ombra proiettata sulle colline di vitigni popolate da voli di colombe, da filari dove spunta un profilo di gazzelle in corsa, mentre sui pampini d’uva acerba si alza lo svolazzante alito di pagine strappate, come farfalle che si posano sul rigoglio clorofilliaco dei filari. Ecco allora che i grappoli maturi abbracciano l’albero del melograno, la dolcezza dei declivi gioca con le simbologie cosmiche che, da sempre, fanno parte dell’immaginazione creativa di Norma Picciotto.

Il tempo dell’usignolo è arrivato, ci dice il poema; è la voce della tortora che sussurra accanto al fico, sono volpi e rose che giocano tra i pampini, si legge nel Cantico. E’ il giglio di Sharon che si cela nella vigna di Ein Gedi, è la rosa delle valli che si nasconde come solo sa esserlo una rosa tra i rovi, o un melo tra gli alberi selvatici, preziosa bellezza che si insegue quasi fosse una speranza di rinascita, perché l’amore non nasce se non porta con sé un qualche senso di redenzione.

“Anì le dodì, vedodì lì”, recita uno dei più bei versi del Shir HaShirim: Io sono per il mio amato e il mio amato è per me. Ecco: c’è un’immagine, nei lavori di Norma Picciotto, che appoggia tra i filari d’uva due silhouette opposte e complementari, silhouette umane stilizzate e perfette nel loro vagare e cercarsi, nel loro rincorrersi parallelo, in quel gioco di rimandi tra sogno e realtà che ci suggerisce il Cantico stesso.

In ciascuno di questi lavori (e nella narrazione che ne ha voluto dare la creatività di Norma Picciotto), il gioco di risonanze tra immagini e versi si materializza non solo nelle citazioni tratte dal poema ma anche nel catalogo naturalistico tratto dal Cantico e che trasmigra, reinterpretato, nelle immagini. Dalle “mandragole che effondono il loro profumo” al respiro del melo, dalla palma che svetta allo “spicchio di melograno come una tempia dietro il velo”. Minerali e spezie, profumi e tesori: madreperla, avorio, zaffiri, mirra, aloe, nardo, croco, cannella, cinnammono, incenso, erbe odorose, miele. Ci sono gli animali, c’è l’idillio bucolico della prima “pastorelleria” della storia universale: cavalle, caprette, volpi, tortore. E poi la botanica: il cedro, la palma, il cipresso…

E c’è anche la cosmologia d’amore: “Chi è colei trasparente come l’aurora, bella come la luna, pura come il sole, terribile come insegne issate?”, dice il poeta. Le immagini in mostra, come il poema, ricordano un sogno. Come nei sogni, i sogni minori si moltiplicano all’interno del sogno che li produce, fino alla dimenticanza, alla caduta e alla confusione dei margini del primo sogno. C’è la polvere di un sogno femminile, c’è il dispiegarsi di un onirico delirio maschile: alla fine, c’è solo la natura segreta di un sogno rivelatore.

Questo è il Cantico, paradigma poetico e, come suggerisce lo studioso Cesare Cases, “modello insuperabile di tutta la poesia europea sin dal Medio Evo” senza cui non avremmo mai avuto la “Rosa fresca aulentissima…” di Cielo d’Alcamo nè la genesi della poesia italiana. E come scrive un’altra grande studiosa di oggi, Sara Ferrari, “un’opera che non finisce mai di stupire per il grande fascino e la modernità che la caratterizzano, contro i quali ogni tentativo di indagine filologica o esegetica è destinato a infrangersi.” (Forte come la morte è l’amore – Tremila anni di poesia ebraica – Belforte).

Vivere l’amore nella piena coscienza della terribilità di questo sentimento, nel suo aspetto erotico e mistico-estatico, nella perdita di sé nell’altro. Forse ha ragione Guido Ceronetti, con la sua rutilante e fervida interpretazione: ci suggerisce che il Cantico esalta le nozze e gli amori umani, che è un idillio pastorale. E sarebbe Santo dei santi perché Dio nel Cantico benedice le nozze e benedice l’amore carnale.

Abitualmente, nella tradizione ebraica, il Cantico dei Cantici è considerato una metafora del legame tra Dio ed il Popolo d’Israele, o come simbolo del luogo più santo ed interno del Tempio di Gerusalemme, il Kodesh haKodashim. Attribuito a Salomone, è incluso nella sezione di Ketuvim, gli Agiografi, fu composto non prima del IV secolo a.C. ed è uno degli ultimi testi accolti nel canone della Bibbia, addirittura un secolo dopo la nascita di Cristo, col sinodo rabbinico di Yavne. Ciononostante, la lettura di Ceronetti ci fa notare che “Dio nel Cantico non c’è, eppure Dio lo riempie. È poesia erotica il Cantico, eppure l’amore umano non ne è che l’ombra sul muro. Dio cerca Dio nel Cantico, ma Dio non può andare in cerca di se stesso”.

“Il mondo intero non vale il giorno in cui il Cantico dei Cantici è stato donato a Israele”, scrisse Rabbì Akivà. Queste parole di uno dei grandi maestri della tradizione ebraica dicono quanto il Cantico sia stato considerato e amato. Il testo è una delle meghillot, uno dei rotoli, da leggere nella liturgia di Pessach, la Pasqua ebraica che celebra la liberazione dalla schiavitù d’Egitto e il passaggio del Mar Rosso, e che testimonia di quale considerazione goda il Shir HaShirim. Anche lo Zohar, Libro dello splendore (è il fondamento della Qabbalà ebraica medievale), riconosce nel Cantico l’intera rivelazione di Dio: «Questo cantico comprende tutta la Torà; comprende tutta l’opera della creazione; comprende l’esilio d’Israele in Egitto e la cantica del mare; comprende l’essenza del Decalogo e il patto del monte Sinai e il peregrinare d’Israele nel deserto, fino all’ingresso nella terra promessa e alla costruzione

del Tempio; comprende l’incoronazione del Santo nome celeste nell’amore e nella gioia; comprende l’esilio d’Israele fra le nazioni e la sua redenzione; comprende la risurrezione dei morti fino al giorno che è il sabato del Signore» (Libro dello splendore, Zohar).

Il verbo ’ahev, “amare” è un termine chiave nel Cantico, tanto che esso e i suoi derivati si ritrovano per 18 volte: ’ahavah, “amore”, corrisponde ai tre termini greci eros, philìa e agàpe, ed esprime nella Torà sia l’amore per Dio, sia l’amore fatto di amicizia e fratellanza, sia l’amore di un uomo per una donna. Si tratta di un unico amore che intreccia le varie sfaccettature: in ciascuna è tuttavia presente l’Altissimo, come sottolineano i Maestri dell’ebraismo mostrando come la parola ’ahavah” abbia due lettere in comune col nome divino impronunciabile, il Tetragramma. Non a caso, numerosi studiosi – tra cui l’acuta analisi del contemporaneo Bruno Forte -, ci fanno notare che l’amore del Cantico è al tempo stesso quello dell’amato per l’amata, quello di Dio per il Suo popolo e del popolo per Dio, e infine quello del singolo credente per l’Altissimo. Che l’amore in tutta la ricchezza del suo senso sia il tema dominante del Cantico è mostrato anche dal fatto che il poema si preoccupa di presentarci sin dall’inizio i due protagonisti come l’Amata e l’Amato, in un duetto parallelo che tuttavia non si fa mai dialogo tra amanti. Come in una fuga di Bach, l’Amata e l’Amato si esprimono con due monologhi che si rincorrono e che non si acchiappano mai, in uno stato di tensione e di desiderio che non si appaga. È interessante notare che a pronunciare il maggior numero di parole nel Cantico sia la voce femminile (una sessantina di versetti), mentre alla voce maschile ne sono riservate poco più della metà (trentasei versetti).

Non pare quindi strano che una tale ricchezza di significato, una tale forza poetica non colpisse l’immaginazione di generazioni di artisti, fino ad oggi. E che la sfida creativa del capolavoro biblico non fosse raccolta dal talento di un’artista come Norma Picciotto, in un’eco di rimandi in cui la dimensione simbolica e realistica si intrecciano indissolubilmente.