di Massimo Giuliani
Più razionale l’uno, più emozionale l’altro. Due testimoni a confronto, due diverse strategie della Memoria. Wiesel vedeva l’ebreo in ogni uomo che soffre; Levi vedeva in ogni ebreo, l’intera umanità ferita
Proprio perché tutti concordiamo sull’importanza, anzi sull’urgenza pedagogica e sociale di “fare memoria” della Shoah, dobbiamo al contempo riconoscere che esistono molti modi diversi e, a volte, strategie divergenti nel ricordare e nell’insegnare a non-dimenticare. Primo Levi e Elie Wiesel, se comparati, rappresentano due modalità diverse di testimoniare la Shoah, e dunque, a ben vedere, di interpretarla. Certo, vi sono anche le somiglianze: entrambi sono state voci scomode, che hanno parlato subito dopo il loro ritorno dai Lager nazisti, contro la rimozione generalizzata di quella tragedia; entrambi non hanno voluto essere racchiusi nel “solo” ruolo di testimoni e hanno sviluppato il loro indubbio talento di scrittori a tutto campo, non disdegnando di scendere nell’agone politico quando necessario; entrambi sono diventati icone di una resistenza al Male incarnatosi nei totalitarismi del XX secolo. E tuttavia la loro testimonianza e il loro stile tradiscono due interpretazioni diverse degli eventi della Shoah.
In Primo Levi è costante la preoccupazione di trasmettere una memoria “non fallace” nella misura in cui in essa prevale un “approccio razionale” teso a capire cosa è successo, ossia a comprendere, pur chiarendo che comprendere non significa giustificare ma andare alla radice, alle cause e alle complesse concause (ideologiche ma anche economiche, politiche, sociali), che hanno determinato la catena degli eventi storici. Per Levi ricordare la propria tragedia personale doveva servire a far meglio comprendere la “natura umana” e le sue potenzialità, nel male e nel bene, perché l’irrazionalità degli istinti, sobillati dall’ideologia, non prevalesse sulla ragione e sulla lucidità che privilegia il capire e sconfigge il luogo comune infarcito di pregiudizi. È una prospettiva molto “antropo-centrica”, se così si può riassumere, non incline a uscire dal solco dei fatti e del verificabile. La stessa memoria dunque deve vigilare su se stessa e sul proprio linguaggio (anche sull’inevitabile retorica che l’accompagna), proprio perché il “messaggio” nasce da eventi particolari ma vuole essere universale, deve esserlo se vogliamo che quegli eventi non si ripetano.
Da parte sua, e rivolgendosi anzitutto a una società come quella nordamericana che pone grande enfasi sulle emozioni e poco conosce la storia, Elie Wiesel ha privilegiato un “approccio poetico”, e più religioso o meglio chassidico, alla tragedia del popolo ebraico, preoccupato com’era di trasmettere appunto lo specifico ebraico della Shoah e di preservarlo da interpretazioni che rischiano di perdere di vista l’ebraicità delle vittime o di oscurarla in un generico umanesimo. Wiesel si è sentito investito della missione di custode universale di quella specifica memoria, anche in virtù del riconoscimento del Premio Nobel per la pace nel 1986, premio che lo ha consacrato “voce dei sommersi” e “icona dei sopravvussuti” ma che lo ha esposto a molte critiche nello stesso mondo ebraico americano. La sua visione teologica degli eventi ha di fatto contribuito a “sacralizzare la Shoah” e inserirla nella civil religion che l’Occidente ha sviluppato a cavallo dei due millenni. Il suo sguardo era “ebraico-centrico”, sebbene abbia messo la sua Fondazione al servizio di battaglie mondiali contro le discriminazioni etniche e a favore di molte minoranze perseguitate.
Non credo che noi si debba giudicare il valore di queste testimonianze, entrambe autentiche e persino necessarie. Semmai dobbiamo cercare di capirle a nostra volta, di storicizzarle. Nella loro diversità sono state complementari, rispecchiando le esistenze e le scelte dei loro autori, assai diversi per tratti caratteriali, per formazione e per orientamenti politici. Ma nel momento in cui il Giorno della Memoria solleva dubbi e ci pone domande legittime su quali strategie siano più utili quando andiamo a istruire e coscientizzare le nuove generazioni, i due approcci, quello di Levi e quello di Wiesel, ci devono far pensare e, se serve, ci devono far scegliere.
*Massimo Giuliani è docente di Pensiero Ebraico e vice-presidente del corso di laurea in Filosofia presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’università di Trento. Ha ricevuto il Ph.D. dalla Hebrew University di Gerusalemme. È membro dei comitati scientifici della Fondazione Maimonide (Milano) e del Meis (Ferrara).