Caro lettore, cara lettrice,
credo siano pochi coloro che, nel nostro pianeta ebraico, non abbiano letto almeno due romanzi di Isaac Bashevis Singer. Ricordo ancora l’impatto che ebbero su di me, 40 anni fa, la lettura de Lo schiavo e di Shosha, i primi che ebbi modo di avere tra le mani dei 18 romanzi scritti da Singer. All’epoca, – era la fine degli anni Settanta e degli ultimi sussulti di un decennio di contestazione e rivolte giovanili -, la lettura di Singer ci rivelò a noi stessi, disvelando un modo di essere ebrei assolutamente contemporaneo, fatto di fughe e ritorni, andirivieni e ambivalenza, pieno di dubbi, di diniego e passione, turbamento e dualismo. Ecco allora Jacob, lo schiavo-sapiente, in un Settecento che sembrava i nostri giorni, venduto dai cosacchi come servo, che si innamorava di una contadina russa e finiva per farsi seppellire accanto a lei, schiavo delle proprie passioni ma anche del proprio amore per il Dio di Israele. E poi il giovane Tsutsik che a Shosha confessa i propri dubbi e domande, lo scetticismo, la ricerca di Dio, il bisogno di amare e l’attrazione per l’abisso. Personaggi questi, che erano e sono, un doppio narrativo di Isaac Bashevis.
Cercare un compromesso accettabile tra verità ed eleganza, tra sentimento della memoria e la propria voce interiore, non è cosa semplice. Ci sono momenti storici in cui la voce di questo geniale scrittore ci parla attraverso i decenni e assume un nuovo valore non solo grazie al talento nel raccontare storie ma anche per la capacità di investigare quelle tendenze turbinose e oscure dell’essere umano in grado di innescare devastanti forze distruttive; e come questa distruttività possa trovare spazio e senso nella dimensione religiosa dell’animo umano. Ed è la modernità dei suoi temi, la sua abilità nel recepire le grandi domande traducendole in un linguaggio secolare, che ci fanno intendere quale sia stato davvero il progetto artistico di Isaac Bashevis. Ben lungi dal voler memorializzare il passato, Singer vuole, in un suo modo sottile, instillare in chi legge l’autenticità di una vita ebraica da vivere nel presente, nel qui e ora della vita quotidiana, e così creare le condizioni per rinvigorire il futuro e per nutrirlo di poesia, di storia, di tradizioni, di memoria. Singer era religioso? La sua immaginazione letteraria si focalizzava certamente sull’aspetto mistico dell’esperienza. Per quanto amante della filosofia di Spinoza, Isaac non perde occasione per affermare il potere della dimensione religiosa nel mantenere il senso di sé, delle tradizioni, dell’identità che rende più saldi e forti nell’affrontare le intemperie della Storia. Singer, come è noto, non fu mai osservante. Eppure, come pochi altri, ci ha regalato l’opportunità di ricomporre un dissidio: quello tra fede ebraico-ortodossa e una coscienza contemporanea nutrita di nichilismo e senso dell’assurdità dell’esistenza. Singer usa un modus pensandi ebraico per esprimere idee universali. Ci fa capire che senza kawanà non c’è tensione verso l’Alto dei cieli né una moralità possibile. E così facendo, al di là di qualsiasi dilemma contemporaneo, Singer rende nuovi e vitali la saggezza e lo spirito dell’ebraismo. I suoi capolavori respirano in questo sottile confine tra il secolare e il religioso creativamente interpretati e riuniti in una “entente cordiale”, una cordiale intesa, un abbraccio vigoroso ancorché conflittuale. Un piacere che ritroviamo intatto nella potenza evocativa di questo nuovo romanzo, Keyla la Rossa.
Fiona Diwan