di Roberta Ascarelli
A 26 anni dalla morte, tradotto in italiano in anteprima mondiale, esce un inedito di Isaac Bashevis Singer: Keyla la Rossa. Una gangster story che il premio Nobel non volle pubblicare, per timore di reazioni antisemite. Una storia d’amore e malavita nei bassifondi di Varsavia e New York
A via Krochmalna 10, Pinchos Menachem Zynger aveva una piccola corte chassidica: era “un tribunale, una sinagoga, una scuola e, se volete, uno studio di psicoanalista dove le persone con l’animo turbato potevano andare a sfogarsi” – scriverà suo figlio, Isaac Bashevis Singer, premio Nobel per la letteratura del 1978. Vi entravano bestie e sensali, donne che sognavano gravidanze, uomini che volevano divorziare, tutte le stranezze, manie e superstizioni di una piccola comunità polacca in cerca di redenzione. Per Isaac Bashevis quella casa e quella strada sono il tracciato di una “commedia umana” che non smetterà mai di raccontare tra ironia e tenerezza, restituendo una identità ebraica – scrive Susan Sontag – strutturata di affetti e di fede vivi.
Ma a via Krochmalna – al numero 8 -, lo scrittore ambienta anche un racconto assai diverso da quelli pii e trasognati raccolti in Dem tatns bezdin-shtub (Alla corte di mio padre) e pubblicati tra il 1956 e il 2000: il titolo è Yarme un Keyle, oggi tradotto in italiano col titolo di Keyla la Rossa (Adelphi, pp 273, 20 euro, a cura di Elisabetta Zevi, traduzione di Marina Morpurgo). In via Krochmalna vive una strana coppia di coniugi. Sono due relitti: Keyla, bellissima e fulva, è una prostituta in cerca di una vita migliore dopo aver soggiornato in tre bordelli; Yarme è un ladruncolo grigio e perdente, uniti indissolubilmente dal loro passato e da un sogno di redenzione che si consuma nella povertà e nell’alcool. Un romanzo che “è una celebrazione trionfale – cito Leslie Fiedler – di tutto ciò che è perverso e proibito nella passione”, ma anche una storia di angustie, tradimenti, isolamento, sensi di colpa accompagnati dal sogno struggente di una impossibile normalità. Una coppia felice e moderatamente “aperta” finché nella loro vita fanno irruzione il Bene e il Male: il Male è Max, coinvolto nella tratta delle prostitute in America, sadico e promiscuo; il bene è Bunem, il figlio di reb Menahem Mendel che porta Keyle con sé a New York per sfuggire dalla polizia zarista e per un profondo senso di compassione. Anche loro, come tante altre figure singeriane, non troveranno, nell’America violenta e inumana, una vita migliore. Keyle non sa “ricominciare”, oppressa dal passato e dalla miseria, e Bunem non trova la sua strada, finché tutto si incaglia nella ricomparsa del passato – Max, Yarme e la fidanzata “presentabile” del giovane Bunem che da Varsavia giunge in America.
Uscito a puntate sul Forverts per lettori che parlavano yiddish e non volevano dimenticare l’ebraismo orientale, il romanzo sarebbe dovuto apparire nel 1979 in versione inglese. Singer aveva commissionato una traduzione dei primi cinque capitoli di Yarme un Keyle al nipote Joseph, ma il romanzo, nella sua nuova versione, rimase tra le carte dimenticate del romanziere scomparso.
È probabilmente la crudezza del testo, l’ossessione erotica, la descrizione fin troppo realistica di malavitosi ebrei senza scrupoli né pentimenti (di cui pure in America molto si parlava) che gli fa scegliere di lasciare nel cassetto un romanzo pure così ricco di umanità – come del resto aveva fatto anni prima col suo primo racconto giovanile Der zindiker meshiekh (Il messia peccatore) del 1935 che non volle mai pubblicare-. Gli sembrava forse pericoloso, con l’eco ancora così virulenta della propaganda nazista, parlare del ruolo degli ebrei nel mercato della prostituzione e delle bande di delinquenti che cercavano di imporsi a Varsavia come in America; pubblicare tematiche del genere avrebbe forse contrastato la “museificazione” in vita che il Nobel gli regalava, la qual cosa non sembrava dispiacere a Singer.
Unico nell’universo narrativo di Singer, questo romanzo è, in realtà, legato a un genere ben consolidato nella narrativa askenazita: il romanzo del “gangster”. Oltre che nei racconti odessiti di Babel, lo ritroviamo in piccole e grandi storie dei maestri della letteratura yiddish, da Der vintshfingerl (L’anello magico), scritto da Mendele Moykher Sforim, nel 1865, alla figura di Moshke-ganef (Moshe il ladro) di Sholem Aleykhem che in A mentsh fun buenos-ayres (Un uomo di Buenos Aires), offrirà un quadro sconcertante di un uomo che si è arricchito lavorando nella redditizia occupazione di mercante di schiave. Sholem Asch nel 1916 scrive Motke ganef (Motke il ladro) che descrive il sordido squallore della vita ebraica nei bassifondi di Varsavia. Negli anni Venti ricordiamo almeno Oyzer Varshavski Shmuglyars (Contrabbandieri) e nella diaspora americana Opatoshu scrive Fun nyu-yorker geto (Dal ghetto di New York). È questo il fitto retroterra letterario del testo di Keyla la Rossa, molto meno scandaloso per i lettori del Forverts che per un generico pubblico americano e Singer riesce a interpretarlo magistralmente manipolando i generi ed evitando ogni banalizzazione e ogni eccesso in un romanzo di rara ricchezza tematica e psicologica nel quale nulla è scontato, nulla appare avido di effetto.
Eccentrico e coinvolgente, questo testo estremamente doloroso e (moderatamente) peccaminoso è unico anche perché permette di entrare come nessuna altra opera di Singer nel laboratorio della sua scrittura. Sappiamo quanto Singer curasse la traduzione in inglese dei suoi testi, guidata e rivista con cura autoriale, “traduzioni che, in realtà, a un’analisi comparativa delle due versioni, sono vere e proprie riscritture, prodotte dallo sforzo di ridurre il testo all’osso, di omogeneizzarne le infinite sfumature” – scrive Alessandro Gebbia.
Nella versione incompiuta di Yarme un Keyle vibra invece ancora lo spirito popolare della storia a puntate – con le sue enfasi e i suoi ammiccamenti affinché non si smarrisca, tra una puntata e l’altra, la familiarità con i personaggi e l’interesse per la spessa trama del narrato. Strategie che emergono con chiarezza in questa storia già tradotta da Singer in inglese, sebbene ancora in forma provvisoria, in attesa di una riscrittura più meditata e rarefatta, come le altre “storie americane” di Singer. L’editore Adelphi lo propone ora in una edizione italiana preziosa e rara (l’unica traduzione del romanzo era apparsa finora in Israele, in ebraico), con alcuni inserimenti chiarificanti – lì dove la traduzione dallo yiddish aveva lasciato lo spazio bianco – e una grande attenzione stilistica che permette di leggere questa storia di gangster tutta in un fiato, dimenticando che si tratta in realtà di un abbozzo da completare.
Roberta Ascarelli germanista, ordinario di letteratura tedesca all’università di Siena e docente di letteratura askenazita al Corso di Studi ebraici
dell’UCEI, presidente dell’Istituto italiano di Studi germanici, direttore della rivista e casa editrice di “Studi germanici”, di “BA” e di “Daf Werkstatt”, membro del comitato scientifico della “Rassegna mensile di Israel”, di “Cultura tedesca” e di “Austriaca”. Membro inoltre della Accademia di Scienze morali e politiche di Napoli.