“Non è stato forse un errore da parte di Dio collocare gli ebrei in Russia perché patissero come all’inferno? E che male c’era a farli vivere in Svizzera, con laghi di gran classe, aria di montagna e tutti quei francesi? Chiunque può sbagliare, anche Dio”. Come non ridere di questa battuta? Eppure il contesto, doveva essere tutt’altro che divertente…
Ridere nella sofferenza, riuscire a ribaltare una situazione tragica nel suo opposto come via di sopravvivenza. In fondo proprio in questa capacità di ribaltamento sta la chiave dell’umorismo secondo Pirandello.
E l’abilità degli ebrei in questo difficile mestiere è riconosciuta ovunque. La Giornata europea della cultura ebraica, in programma il prossimo 2 settembre, è dedicata quest’anno proprio all’arte degli ebrei di sapere sorridere e far sorridere.
Ma se è evidente la capacità degli ebrei di sorridere anche delle disgrazie – e il numero dei comici ebrei, specie americani, ne sono da questo punto di vista, una conferma – più difficile spiegare l’origine di questa abilità.
Laura Salmon , docente di Teoria della Traduzione all’Università di Genova, ha scritto un breve saggio proprio per cercare di rispondere, almeno in parte, a questo interrogativo.
Secondo Pirandello l’umorismo nasce da un capovolgimento della realtà, spiega la Salmon: “nella “capacità di ribaltare ogni cosa nel suo opposto: di vedere il bello nella bruttezza, l’avarizia nella generosità, l’arroganza nell’umiltà, il goy che è nell’ebreo, l’ebreo che è nel goy”.
Quando, per esempio, in “Amore e Guerra” di Woody Allen, la cugina Sonia, piena di pathos declama “già ora gli ultimi raggi dorati del tramonto stanno dileguando a oriente dietro le verdi colline; la scura coltre della notte presto si stenderà su noi tutti”, la risposta carica di stupore e ammirazione di Boris è “ehi, si sente che hai fatto ragioneria!”. Ecco, quella battuta è esattamente l’opposto di quel che ci si saremmo attesi. E inevitabilmente fa ridere. E’ del tutto inattesa, fuori luogo, l’opposto di quel che normalmente chiunque avrebbe detto. Se stiamo alla lezione pirandelliana, quella battuta è una forma di umorismo – e chi potrebbe negarlo?
Ma perchè gli ebrei hanno più di altri la capacità di operare questo “ribaltamento” della realtà?
La Salmon spiega che “l’umorista non ride contro qualcuno, ma ride con qualcuno o qualcosa, della triste condizione umana. L’umorista, a differenza del comico, resta dentro il paradosso e, coraggiosamente, sopporta di non poterlo risolvere. Deride le certezze manichee dell’essere umano, deride le categorizzazioni, il narcisismo del complesso di superiorità, ma anche quello del complesso di inferiorità. In breve, deride la derisione, deride il giudizio”.
In tutto questo, osserva la Salmon “l’umorismo è per definizione diasporico, barcollante”. E aggiunge “pur non essendo esclusivamente ebraico, esso è generato da situazioni di sospensione, malinconia, incertezza che sono tipicamente diasporiche. In tal senso, nessun gruppo culturale ha maturato un addestramento alla paradossalità, alla sospensione, più sofisticato e prolungato di quello della diaspora ebraica”.
Gli ebrei, per “per motivi storici e culturali, hanno trovato il doloroso humus ideale per addestrarsi alla sospensione del giudizio, su cui si fonda l’atto umoristico”.
C’è poi una distinzione chiara fra comicità e umorismo, osserva la Salmon: “Se la comicità suscita il riso, l’umorismo suscita il riso tra le lacrime.” L’umorismo, insomma, si manifesta quando da una situazione di sofferenza o di estrema serietà, si riesce a suscitare la risata.
Quanta esperienza di sofferenza c’è nella vita, nella storia degli ebrei? Quanta sofferenza c’è stata nell’infanzia e nell’adolescenza di Alex Portnoy? E quante risate nel racconto che Philip Roth ne fa ne “Il lamento di Portnoy”? Lo stesso si potrebbe dire per Shalom Auslander che nel suo sofferto racconto di ragazzo in crisi di indentità, riesce a farci piegare dalle risate, talvolta sino alle lacrime.
È la modalità del racconto e la contestualizzazione degli episodi che suscitano la risata; gli ebrei americani, stimolati in questo dal desiderio di integrazione, come spiega Lawrence Epstein nel suo libro “Riso Kosher”, sono riusciti a prendere le distanze dal loro passato e a raccontarlo, anche grazie alla chiave dell’autoironismo.
Gli ebrei d’Europa solo in anni recenti sembrano essere riusciti a trovare un pò di scioltezza e forse quel necessario distacco da un passato segnato indelebilmente dalla Shoah.
Il regista belga Micha Wald per esempio che qualche anno fa è riuscito a realizzare con “Simon Koniavski” un film ironico, divertente, autobiografico, sulla convivenza con un padre sopravvissuto ai campi di sterminio.
Il tedesco Dany Levy, con il suo “Zucker. Come diventare breo in sette giorni”, ha posto invece al centro del suo racconto una famiglia ebrea tedesca, divisa fra Est e Ovest, all’indomani della caduta del Muro. La divisione prima e la riunificazione poi della Germania, sono nel film di Levy la storia parallela a quella dei due fratelli Samuel e Jackie Zucker, ebreo ortodosso il primo, e dissoluto nella vita e nei costumi il secondo. La riunificazione di Berlino è l’occasione per l’incontro e la comprensione fra due mondi agli opposti come quello fra dei due fratelli Zucker.
Nella letteratura se il punto di partenza rimane il Philip Roth di Portnoy (e in Canada il Mordechai Richler della Versione di Barbey e del più autobiografico L’apprendistato di Duddy Kravitz), in Europa solo recentemente abbiamo acquistato delle voci che stanno al passo con quelle più rodate americane. L’inglese Howard Jacobson, è fra questi. In “Kalooki Nights” i temi tipici della letteratura ebraica americana – i rapporti con la famiglia, e con la madre soprattutto, l’integrazione, le relazioni con il mondo non ebraico – si ritrovano nella Manchester degli anni ’50 di Jacobson. Anche in Italia in questo senso qualcosa finalmente si muove. Bruno Osimo per esempio con il suo “Dizionario affettivo della lingua ebraica”, riesce a proporci attraverso la chiave del linguaggio tamponico materno, l’atmosfera di un’epoca oltre che di una famiglia ebraica del nord Italia con i suoi ricordi di guerra, i suoi tabù, le usanze e allo stesso tempo il tentativo del giovane Bruno a sganciarsi da una serie di regole non sempre comprensibili, fonte talvolta di dolore. Il tutto raccontato con leggerezza, talvolta con ironia. L’autore forse è serissimo nel ricostruire i suoi ricordi, ma ha indubbiamente la capacità di renderli se non umoristici, certo divertenti, a cominciare proprio dalla traduzione delle frasi in “tamponico” della madre dell’autore Bruno Osimo.
La Giornata Europea della Cultura come ha scritto il presidente dell’UCEI è un’occasione di conoscenza per il mondo non ebraico. Non solo. Amos Luzzatto, presidente della comunità di Venezia, che quest’anno è la città capofila dell’evento, ha sottolineato come l’umorismo possa aiutarci a riflettere in positivo in un momento tanto complesso per l’Italia e l’Europa.
Seguendo la logica di Pirandello – e i tanti esempi che ormai il cinema e la letteratura ebraica occidentale ci hanno offerto e ci offrono – la scelta stessa dell’umorismo come tema portante della Giornata Europea della Cultura Ebraica, in questo 2012 così critico e difficile sotto molti punti di vista, potrebbe apparire a qualcuno come una forma di “umorismo” (ebraico).
Giornata europea della cultura ebraica
2 settembre 2012
www.ucei.it/giornatadellacultura