di Rav Elia Richetti
“Be-khòl dor wa-dòr chayàv adàm le-haròth eth ‘atzmò ke-ìllu hu yatzà mi-Mitzràyim”, “In ogni generazione la persona deve comportarsi come se personalmente fosse uscita dall’Egitto”. Qual è questo comportamento? Direi che si manifesta in due sensi: nel comportamento generale e negli atti specifici. Questi ultimi sono noti: credo non esista un singolo ebreo che non sappia che cos’è un Séder, che non conosca almeno parte della normativa che da millenni ci tiene presente la memoria dell’uscita dall’Egitto.
Per quanto riguarda il comportamento generale, il punto fondamentale è mettere in risalto gli insegnamenti che dal memorabile evento di Pésach derivano.
In primo luogo è la libertà, del singolo come della collettività; l’asservimento ad altri esseri è quanto di più abietto possa esistere, perché comporta l’annullamento di se stessi e soprattutto della propria coscienza. Per questa libertà si deve essere pronti anche a patire; questo è il messaggio che il brano di “Ha lachmà ‘aniyà”, che leggiamo nella Haggadà, ci trasmette: “Questo è il pane dell’afflizione”.
Un altro insegnamento, non meno fondamentale, è il fatto che questa libertà deriva da una precisa volontà divina: «We-hotzethì me-èretz Mitzràyim – Anì we-lò malakh», «Vi ho fatti uscire dalla terra d’Egitto – Io e non un incaricato». Questo fatto, che è così evidente nel racconto di Pésach, deve essere accettato con tutte le sue conseguenze in ogni momento della nostra vita: ricordare che la nostra stessa esistenza come ebrei è possibile solo perché Ha-Qadòsh Barùkh Hu ci ha liberato dalla schiavitù egizia non può non condizionare di conseguenza le nostre azioni.
Infine Pèsach ci insegna il rispetto per tutti: la libertà degli altri dev’essere rispettata come vogliamo sia rispettata la nostra, il dolore degli altri deve essere rispettato come l’Ebraismo ci insegna a rispettare perfino il dolore degli Egizi per la morte dei loro primogeniti e dei loro cavalieri.
Ciò perché – e questo è forse l’insegnamento di più vasta portata – la sofferenza del prossimo non può e non deve essere motivo di gioia. Anche nella Mishnà, nel trattato di Sanhedrìn, viene sottolineato che Ha-Qadòsh Barùkh Hu soffre anche di fronte alla giusta sofferenza del malvagio che è punito.
È per ricordare tutto questo, che ogni motivo di gioia, ogni ricorrenza, è definita dai Maestri “zékher l-Ytziàth Mitzràyim”, “memoria dell’uscita dall’Egitto”.
Pésach kashèr we-saméach.