di Daniela Ovadia
Non è da tutti essere, a 34 anni, professore della prestigiosa University of California di Los Angeles (UCLA), responsabile nominato di un proprio laboratorio di ricerca indipendente entrando così, di fatto, nel gotha scientifico americano. Ma è proprio quel che è riuscito a fare Martin Monti, milanese e brillante scienziato, diventato in pochi anni uno dei massimi studiosi e specialisti dello “stato di coscienza” nei pazienti in coma. Tanto da essere stato chiamato per un consulto al capezzale dell’ex premier israeliano Ariel Sharon, colpito da una devastante emorragia cerebrale il 4 gennaio del 2006 e da allora ricoverato in stato di coma in un centro di assistenza specializzato vicino a Tel Aviv.
Cresciuto all’interno della Comunità ebraica di Milano, Monti frequenta scuole inglesi: «I miei non hanno scelto la scuola ebraica anche per problemi di lontananza, ma frequentavo il Tempio di via Guastalla e la maggior parte dei miei amici, invece, vi ha fatto tutto il percorso di studi», spiega Monti al Bollettino.
Dopo il diploma, la scelta di iscriversi in Bocconi, a Discipline economiche e scientifiche (DES), considerato il corso di laurea più difficile e teorico, pensato per creare nuovi economisti da inserire nel mondo accademico.
«Ma se mi chiedessero come far funzionare un business, non saprei da dove cominciare!», spiega. E in effetti il suo percorso è piuttosto atipico: durante il primo anno di studi segue un corso di epistemologia delle scienze sociali con Riccardo Viale, oggi direttore dell’Istituto di cultura italiana di New York. «Era un corso incentrato sui meccanismi mentali che governano il nostro modo di prendere decisioni. Era solo il primo anno, ma ho capito che quello era ciò che mi interessava: comprendere come funziona la mente umana. E infatti mi sono laureato con Viale stesso, e con una tesi su come, in fatto di economia, le emozioni influenzino le decisioni», spiega ancora Monti.
Una vera e propria passione quella del giovane neuroscienziato milanese per l’intricata e complessa attività del cervello, in gran parte ancora sconosciuta. «È una sfida continua che mette sul tavolo domande sempre nuove per dare risposte utili al trattamento dei pazienti in stato vegetativo impossibilitati a comunicare».
Una sete di conoscenza che Monti non esita a legare alla cultura ebraica che l’ha formato. «La perseveranza nel portare avanti i propri intenti, senza guardare indietro, ma sempre avanti, è una caratteristica profondamente ebraica ed è il sale del mio lavoro di ricerca. È un’apertura mentale alla novità e all’amore per il sapere che ho imparato in famiglia e in particolare da mio nonno». Martin Monti è infatti il nipote di Avram Dolphy Goldstein Goren, fondatore del Centro di Judaica presso l’Università Statale di Milano, imprenditore e benefattore di innumerevoli istituzioni ebraiche in Italia, in Israele e non solo, per il quale la cultura era la sostanza stessa dell’ebraismo: «Quello che ci ha resi diversi, amava ripetere mio nonno, è il fatto che i nostri bambini, da sempre, a tre anni imparano a leggere e scrivere e interpretare il Talmud». Un amore per il sapere fatto proprio dall’intera famiglia, che vede tutti i suoi componenti molto attivi sul fronte dell’impegno culturale, sociale e politico.
Il caso di Terry Schiavo
Terminata la Bocconi, è a questo punto che Monti deve fare una scelta: per cambiare completamente ambito di ricerca, è meglio lasciare l’Italia per Paesi dove il percorso di studi è più elastico e multidisciplinare. Partire non gli fa paura: ha dalla sua una famiglia molto internazionale, con ramificazioni negli Stati Uniti e in Israele, ed è perfettamente bilingue per l’inglese.
«Feci domanda per un dottorato di ricerca in Scienze Cognitive e sono approdato all’Università di Princeton, nel New Jersey. Lì mi sono occupato di linguaggio e ragionamento, e in particolare di come il linguaggio -e il fatto che gli esseri umani possano parlare-, abbia modellato i nostri processi cognitivi, consentendoci di diventare una specie animale di successo».
Nel corso degli studi, Monti si interessa anche di un campo emergente nella ricerca neuroscientifica: quello del coma e, in particolare dello stato vegetativo persistente, la situazione nella quale il paziente non si risveglia e non mostra segni di coscienza o consapevolezza di ciò che accade intorno a lui per oltre sei mesi dall’inizio della malattia. Il problema, per gli scienziati, è soprattutto quello di capire qual è il livello di coscienza di una persona in tale situazione. Sono gli anni immediatamente successivi ad alcuni casi di cronaca che hanno riempito le pagine dei giornali di tutto il mondo: da Terry Schiavo, giovane donna americana, in coma da molti anni, che muore in seguito alla sospensione dei trattamenti che la tenevano in vita dopo una sentenza molto controversa, fino al caso italiano di Eluana Englaro, deceduta per interruzione della nutrizione e idratazione su richiesta del padre e in ottemperanza alla volontà da lei espressa prima della malattia.
«In quel campo lavorava un neuroscienziato britannico, Adrian Owen, che aveva pubblicato alcune ricerche molto interessanti. Quindi l’ho incontrato e alla fine del mio dottorato sono andato da lui, che all’epoca stava a Cambridge, in Gran Bretagna, per lavorare su alcuni test utili per capire lo stato di coscienza residua nei pazienti in stato vegetativo persistente. Da lì, quando Owen ha lasciato Cambridge per aprire un nuovo laboratorio in Canada, mi sono spostato per aprire il mio qui a UCLA».
La perizia su Sharon
È alla UCLA che, a fine gennaio scorso, i medici che hanno in cura Ariel Sharon lo contattano per una valutazione: da quando l’anziano leader è in coma, i suoi curanti non hanno visto alcun segnale di coscienza o di consapevolezza. Il figlio Ghilad, invece, e le infermiere che lo assistono, sostengono che sia in grado di capire quanto accade intorno a lui. «È un problema che si incontra spesso in questi casi: i medici non vedono segnali clinici di ripresa, ma i familiari e le persone vicine sono convinte che la persona ci sia ancora, che all’interno di un corpo immobile vi sia un cervello funzionante che non può esprimersi. Questo è dovuto anche al fatto che molte cose che facciamo non sono consapevoli, ma sono semplici riflessi automatici. I pazienti in coma possono dare l’impressione di seguire una persona con lo sguardo o di sorridere, ma spesso si tratta, appunto, di semplici automatismi».
Da qualche anno però, con lo sviluppo delle tecniche di risonanza magnetica funzionale, -una macchina che permette di vedere quali aree del cervello sono attive durante un determinato compito-, si è aperto uno spiraglio per una migliore definizione del reale stato di questi malati. E ha fatto molto scalpore proprio la pubblicazione, da parte del gruppo di ricerca di Owen, del caso di una donna, in coma da alcuni anni, che alla risonanza magnetica mostrava di attivare le stesse aree del cervello delle persone sane quando l’esaminatore le chiedeva di immaginare se stessa mentre giocava a tennis o passeggiava per la propria casa, due compiti che richiedono un discreto livello di consapevolezza, oltre che una memoria ben conservata.
«Quando il dottor Tzvi Ganel -dello Zlotowski Center for Neuroscience dell’Università Ben Gurion, nel Negev-, mi ha chiamato per il caso di Ariel Sharon, mi ha detto chiaramente che il figlio Ghilad e la famiglia volevano capire meglio, con queste nuove tecniche, che cosa stava succedendo nella mente dell’ex premier.
Specificò che non lo facevano solo per Sharon, per il quale non c’è comunque molto da fare, ma anche per tutti i malati nella stessa situazione e per le loro famiglie», spiega ancora Monti.
È così che uno studente del Soroka University Medical Center, il centro israeliano che possiede la migliore risonanza magnetica con la quale fare l’esperimento, è volato a Los Angeles per preparare, con Martin Monti, le prove a cui sottoporre Sharon: non solo l’ormai classico esperimento del tennis e della passeggiata nella casa, ma anche un insieme di fotografie dei familiari mescolate a foto di sconosciuti e una registrazione della voce del figlio Ghilad messa a confronto con la stessa voce elaborata al computer in modo da risultare simile dal punto di vista sonoro, ma senza che si possano comprendere le parole.
Le prove del Leone
«Quando hanno portato Sharon nella risonanza, lo abbiamo sottoposto a due tipi diversi di prove: alcune cosiddette passive, come ascoltare la voce del figlio o guardare le fotografie, altre invece di tipo attivo, che richiedono che la persona faccia di sua volontà qualcosa per rispondere alle richieste dell’esaminatore. È il caso della prova in cui si chiede al paziente di immaginare di giocare a tennis: bisogna che lo faccia davvero, altrimenti il cervello non accenderà le aree che governano la memoria dei movimenti».
Lo stesso tipo di volontarietà è necessario per un’altra prova, in cui sono sovrapposte in trasparenza le fotografie di una casa e quelle di un volto e si chiede al malato di concentrarsi di volta in volta o su una o su sull’altra. «Per fortuna nel nostro cervello l’area che riconosce le facce è diversa da quella che riconosce gli oggetti, quindi se la persona è cosciente e risponde alle nostre richieste dovremmo vedere l’attivazione di zone diverse del cervello a seconda di quello che sta facendo».
Il problema, con questi studi, è che i risultati sono frutto di una media statistica elaborata da un computer: non è possibile vedere fisicamente il cervello che si “accende” e “spegne”, ma è possibile, per esempio, far calcolare dalla risonanza quali sono le zone che stanno consumando più ossigeno o più glucosio, quindi che in quel momento stanno lavorando di più. Ciò significa che i risultati ottenuti sono sicuri solo se si vede una differenza molto consistente tra una parte e l’altra del cervello, mentre sono più dubbi se la differenza è modesta.
«Nel caso di Sharon abbiamo riscontrato delle differenze importanti nelle prove passive, quelle in cui non c’è bisogno di agire volontariamente, perché è possibile che il nostro cervello continui in automatico a reagire differentemente di fronte a persone e cose senza che l’individuo malato ne sia davvero consapevole. Viceversa abbiamo avuto risposte deboli nelle prove attive, anche se tuttavia ci sono e vanno tutte nella direzione di una qualche coscienza residua. Per dirlo con certezza, però, dobbiamo ancora studiare i risultati insieme ad Alon Friedman, il neurologo di Soroka con cui collaboro e giungere a un’opinione condivisa».
Per il vecchio leone ex-Primo ministro dello Stato ebraico, però, poco cambierebbe dal punto di vista pratico. «Proprio perché non sappiamo mai cosa sta accadendo veramente nella testa dei malati, e se sono davvero irrecuperabili o meno (anche se col passare degli anni le probabilità di risveglio si assottigliano fino quasi a scomparire), l’ordine per il personale e i familiari è di comportarsi sempre come se la persona fosse cosciente. Si saluta entrando nella stanza, si parla col malato e lo si informa di quanto si intende fare quando si praticano le cure. Nel caso di Sharon, alla fine dell’esame nella risonanza ho provato a fare un test molto semplice e classico. Ho preso uno specchio e gli ho chiesto di seguirlo con lo sguardo e, due volte su tre, lo ha fatto. Si tratta di movimenti piccoli degli occhi, ma siano stati in molti a vederli. Questo sarebbe compatibile con quanto ci dicono il figlio e le infermiere: che è più contento e sorride quando arriva la sua infermiera preferita e che è più attivo quando alla TV ci sono le partire di basket, che era il suo sport prediletto».
Dopo questa consulenza, che ha avuto una discreta eco anche sui giornali in Israele e negli USA, Martin Monti è tornato in California, non senza un passaggio per Milano dove ha sposato la sua attuale moglie, una scienziata belga che lavora nel suo stesso campo e che ora condivide con lui alcuni progetti di ricerca.
E quando gli si chiede quanto ha contato, in questa carriera così rapida e intensa, il suo essere ebreo, risponde: «Ho sempre vissuto l’ebraismo come una componente essenziale della mia identità, specie dal punto di vista culturale. Ho frequentato la Comunità di Milano e mi ha sempre colpito il fatto che si puntasse così tanto sull’educazione dei figli e sulla cultura, che si coltivassero le lingue e si vivesse davvero come cittadini del mondo. E non posso dimenticare l’insegnamento di mio nonno Dolphy, che diceva che essere ebrei significa continuare a farsi domande. È esattamente questa l’essenza del mio lavoro».
NEUROSCIENZE E COMA
Negli ultimi anni gli studi sulla coscienza sono diventati centrali nelle neuroscienze e il coma, che è apparentemente assenza di coscienza, è un esempio perfetto di quanto importante sia diventato capire come la coscienza si manifesta e come può essere lesionata da un incidente o da una malattia. La coscienza, infatti, non è un tutt’uno, qualcosa che c’è o non c’è, ma un continuum, che può essere compromesso anche solo parzialmente, oppure soppresso temporaneamente e in modo reversibile. Pensiamo, per esempio, a quanto accade mentre dormiamo o, ancor più, a quando siamo sottoposti a una anestesia generale.
Nel caso del coma, la situazione è più complessa perché dentro un corpo impossibilitato a muoversi può esserci il nulla, l’assenza totale di consapevolezza (quello che in medicina viene chiamato coma profondo), oppure una persona totalmente attiva dal punto di vista mentale (è quella che in medicina si chiama locked-in syndrome, letteralmente la sindrome di chi è chiuso dentro il proprio corpo senza poter comunicare, come un palombaro dentro lo scafandro). Poiché spesso è difficile fare diagnosi differenziale tra queste due condizioni, i medici hanno istituito una categoria diagnostica, lo “stato vegetativo persistente”, che indica semplicemente l’assenza apparente di segnali di coscienza in un malato per più di sei mesi. È su questa che si giocano tutte le discussioni sia cliniche sia legali ed etiche, perché al momento non siamo in grado di dire quali stati vegetativi persistenti danno speranze di risveglio e quali sono definitivi. Col passare degli anni le speranze si affievoliscono, perché statisticamente il risveglio diventa più improbabile, anche se in letteratura è segnalato un caso di parziale ripresa di coscienza a 19 anni dall’inizio del coma. Nel caso si identifichi invece una locked-in syndrome, la scienza sta sperimentando alcuni macchinari (le cosiddette brain-computer interfaces) che consentono ai malati di comunicare con l’esterno, attraverso complessi meccanismi di lettura delle onde cerebrali oppure con l’analisi dei movimenti degli occhi.
BIOETICA EBRAICA E COMA
Se un malato si trova in uno stato di coma irreversibile (per quanto la medicina oggi è in grado di dire), è possibile interrompere le cure che lo mantengono in vita come è stato fatto, per esempio, nel caso di Eluana Englaro?
La domanda è stata posta a molti rabbanim esperti di bioetica e l’orientamento generale è abbastanza chiaro. Il Talmud afferma che se una persona è un goses, ovvero un morente che ha presumibilmente meno di 72 ore di vita, bisogna fare di tutto per rendere la sua dipartita il meno dolorosa possibile ma si può evitare di intervenire con cure che sono inutili. È evidente quanto questa definizione sia problematica nel caso di un individuo in stato vegetativo persistente, che può sopravvivere anche per anni. La maggior parte dei responsi in ambito ortodosso sostiene quindi che si può evitare di accanirsi, nella fase acuta, per salvare una persona che presumibilmente si troverà in questo stato, ma che una volta messe in atto le terapie necessarie a mantenerla in vita, queste non possono essere interrotte.
Anche in ambito ebraico, però, si discute, -come nella bioetica laica e cattolica-, sulla natura di alcune cure, per esempio se la nutrizione e l’idratazione artificiali sono da considerarsi terapie (quindi evitabili o sospendibili nel caso di persona morente) oppure elementi necessari all’essere umano e come tali non sospendibili. Per la maggior parte dei rabbini ortodossi prevale la seconda interpretazione, ma in alcuni ambiti, e in particolare nel mondo conservative e reform, le opinioni divergono e tali cure sono considerate non obbligatorie, così come si tende a estendere la definizione di goses anche oltre le canoniche 72 ore, fino a comprendere anche i malati in coma irreversibile.