di Fiona Diwan
Che cosa resta dell’amore quando si invecchia insieme, i figli se ne vanno, ci si conosce a memoria persino nei pensieri più inconfessati, nei gesti appena abbozzati, e le fattezze del corpo cedono all’implacabile forza di gravità? Cosa resta quando ci si volta indietro, verso la favola bella che ieri ci illuse e di cui resta solo un vago profumo di speranze dissolte? Cos’è che tiene insieme due coniugi di lungo corso e che cosa ne sbriciola la pazienza, ne isterilisce lo sguardo e ne fiacca la tenuta? Di quanti piccoli crimini coniugali ci si deve macchiare per poter restare insieme fino alla fine?
Tutto ciò sembrano chiederselo Iona e Reviva Popoch in una notte insonne e congestionata di accuse e ricordi, a colpi di umiliazioni e rimproveri ma anche di toccanti squarci di tenerezza. Arriva sempre un momento in una coppia, in cui ci si guarda negli occhi e si affronta la verità, miseria e grandezza di una vita passata insieme, intessuta di torti, rinunce e piccoli omicidi psichici. Quale torbido collante tiene insieme Iona e Reviva? Non c’è felicità di coppia che non impasti la gioia dell’inizio con la noia del presente, il ricordo giovanile dell’esultanza dell’amore con l’esaustione dell’oggi. Nel presente di Yona e Leviva si mescolano così l’abitudine e qualche sporadico singulto di passione, la paura della solitudine con un eros appannato e stanco. Vivere è un duro lavoro ma compierlo da soli è ancora più duro. Avere qualcuno contro cui “abbaiare” è meglio che non avere niente, come dice Gurkel, l’amico illividito dalla solitudine che irrompe sulla scena con il suo dolore e la sua urticante ironia.
Né con te, né senza di te, meglio in due che da soli, malgrado tutto: questo ci dice il grande scrittore israeliano Hanoch Levin, nato a Tel Aviv e morto nel 1999, a 55 anni, in questa drammaturgia perfetta che è Il lavoro di Vivere, la piéce in scena al Teatro Franco Parenti fino al 21 dicembre (sconto del 50 per cento, 15 euro invece che 32 euro, per i lettori del Bollettino). Memorabile la regia di Andreè Ruth Shammah che ha tradotto il testo dall’ebraico insieme a Claudia della Seta e a cui va il merito di far conoscere in Italia uno tra i più geniali drammaturghi contemporanei. Eccellente l’interpretazione del cast intero, su cui svetta Carlo Cecchi, di gran lunga il più grande attore di teatro italiano di oggi (bravi anche Fulvia Carotenuto e Massimo Loreto). «Ho voluto mettere in scena il paradosso comico, la leggerezza della tragedia, la tensione morale che attraversa l’arte di Hanoch Levin. E far scoprire così la potenza di Israele ma senza retorica», spiega la Shammah. «Ho voluto rappresentare questo bisogno di verità che ci assale quando ci sentiamo invecchiare, quell’urgenza di mettere ordine nei nostri sogni, di fare i conti con le nostre illusioni giovanili. Una sincerità crudele, un bisogno di verità che dà molta sofferenza. Ma nel contempo, nella pièce e tra i due coniugi-personaggi, c’è un aspetto comico e sarcastico travolgente, un ritmo incalzante, una frenesia emozionale che ci lascia senza fiato. Tradurre questo testo dall’ebraico non è stato semplice, di Levin non c’è nulla in italiano. Lui conosce alla perfezione Strindberg, Beckett, Pinter, Thomas Bernhardt, ma in lui tutto è profondamente israeliano e contiene una matrice ebraica universale, che porta a sfiorarsi commedia e tragedia con la tipica ironia della disperazione. Il tema della pièce è la frustrazione, il tradimento dei sogni della giovinezza e l’attimo crudele e accecante in cui decidiamo di fare i conti con le nostre mancanze: Iona, il protagonista, è incapace di accettare il proprio fallimento e così scarica tutto sulla moglie, sul mondo, sugli altri», conclude Shammah.
Considerato tra i più geniali drammaturghi contemporanei, ancora sconosciuto in Italia ma amato in tutta Europa, nato nel 1944 e morto nel 1999, Levin ha scritto più di 50 pièce teatrali, commedie, satire, tragedie, poesie, ha fondato riviste come Teatron ed è stato per decenni un outsider della scena culturale israeliana, amato dalla gente e dagli intellettuali ma mal tollerato dall’establishment politico israeliano di cui Levin spesso prendeva in giro il trionfalismo e l’eccesso di chutzpà patriottica.
«Per Hanoch Levin la vita è uno spettacolo crudele in cui l’uomo si trova in continuo conflitto con un Dio assente. Nelle sue opere l’omicidio psichico è sempre presente: il suo è un teatro della crudeltà che tuttavia flirta con gli aspetti comici della vita e delle relazioni umane. Poeta, artista, Levin ha una visione apocalittica e ironica della scrittura, vuol produrre un effetto catartico sposando l’orrore al sublime, il dolore alla bellezza, per generare nello spettatore una coscienza, una consapevolezza», spiega Mariangela Mazzocchi Doglio, storica del teatro, durante un convegno sulla Letteratura israeliana tenuto all’Università statale di Milano, in novembre.
Una storia d’amore che travolge e colpisce al cuore, in cui dolcezza e rimpianto, odio e amore si intrecciano all’implacabile lavoro di vivere.