Cè unimmagine, forse avrete già avuto modo di notarla, che racchiude in sé tante verità sulla realtà di Israele. Si tratta di una fotografia scattata da Oded Balilty per lagenzia statunitense Associated Press. E ha vinto il massimo riconoscimento cui un lavoro giornalistico possa aspirare: il premio Pulitzer. Nellimmagine appare una ragazza che con le sue sole forze cerca di resistere a una colonna di militari israeliani. La ragazza si chiama Nili, ha solo 16 anni e frequenta una scuola religiosa a Gerusalemme. Il motivo dello scontro, avvenuto ormai oltre un anno fa, riguardava levacuazione di un insediamento religioso abusivo al di fuori dai confini dello Stato di Israele, non lontano da Ramallah. Nili era lì per opporsi alle operazioni dei militari. Non è questa la sede per discutere chi avesse ragione. Tutte le opinioni possibili (e Nili grazie alla straordinaria notorietà provocata dallassegnazione del Pulitzer, ha avuto ampio modo di esprimere la sua opinione alla stampa israeliana e internazionale), mi sembra possano essere considerate legittime.
Credo invece sarebbe opportuno riflettere, proprio in questi giorni, in cui si celebra il compleanno di uno Stato ebraico indipendente, su cosa è e su cosa significa lo Stato di Israele oggi.
Cè una cosa che francamente non riesco proprio a condividere fra le tante che Nili ha dichiarato ai giornali: il fatto che limmagine della sua resistenza allintervento dei soldati costituisca un motivo di imbarazzo per lo Stato di Israele.
Al contrario, direi che ogni elemento, dei tanti forti elementi presenti nellimmagine, costituisce un motivo di fierezza per Israele e per tutti noi che ci sentiamo profondamente legati alla sua esistenza.
Lo ripeto, non cè bisogno di definire da che parte stia la ragione per ammirare lo straordinario coraggio di questa ragazza. E tantomeno per apprezzare la straordinaria determinazione dei militari (probabilmente solo un poco più anziani di lei) nel difendere, in una situazione molto delicata, le leggi di uno Stato che è e vuole continuare ad essere una democrazia.
Israele è forte perché resta aperto alle differenze e non le teme, è la casa di ebrei che professano spesso ideali diversi, ma riescono in un modo o nellaltro a vivere a pieno titolo e a testa alta in questa casa comune.
In questo senso costituisce per tutti gli ebrei e per tutte le società avanzate e autenticamente democratiche, un punto di riferimento insostituibile.
A fronte del dibattito perennemente aperto e spesso doloroso che si svolge allinterno della società israeliana, alcuni segnali di degenerazione che possono essere raccolti nella Diaspora, al contrario, preoccupano.
Fra i tanti esempi possibili, anche quello di uno strano dibattito che si svolge fra alcuni ebrei italiani. Fanno a gara per trovare una definizione di quello che sono o che si immaginano di essere. E fioccano i distinguo, le etichette. I distintivi da appuntarsi sulla giacca. E fioccano, ovviamente, le scomuniche. Mai nessuno che abbia voglia di scendere sul concreto. Mai una proposta costruttiva. Mai qualcuno che abbia voglia di unire, piuttosto che di dividere.
Certo, la carta si lascia scrivere. Soprattutto se a pagarla è la collettività. Ma per quanto mi riguarda di questa maniera di condurre dibattiti ne ho piene le tasche.
I confronti, quelli veri, infatti, non nascono da uno sbrodolamento di parole. Nascono dalla mediazione e dalla sintesi. Nascono dalla volontà di mettere a fuoco gli orizzonti, di fissare gli obbiettivi da raggiungere. Nascono dalla volontà di includere e non di escludere, di coinvolgere e non di classificare.
Il caso emblematico della foto che ha vinto il Pulitzer, così come più in generale la situazione talvolta lacerante di Israele, in fondo, dimostrano che non è determinante quali problemi ci troviamo ad affrontare, ma è piuttosto decisivo il nostro coraggio e la nostra lucidità nellaffrontarli.
Per quanto ci riguarda, possiamo pure continuare a tacere la comunità reale e i suoi problemi reali. Se ci gratifica, possiamo anche coprire il vuoto delle nostre azioni con questo rombo di parole che non è un dibattito, è solo una sovrapposizione di monologhi. Ma in questo modo, temo, corriamo il rischio di non andare molto lontano.
Amos Vitale (amosvitale@mosaico-cem.it)