Sofisticata, controcorrente, anticonformista. Un talento bruciato, una vita fatta di ardenti passioni. Oggi un libro ripercorre la storia di Felice Schragenheim, poetessa che morì a Bergen Belsen a soli 23 anni.
Apre il libro una delle foto più toccanti. Lilly Wust ha 78 anni, è il 1991. Seduta al tavolo del suo tinello, solleva con la mano ossuta una delle foto dell’amica Felice sparse davanti a lei. Ha il viso scavato dal dolore, gli occhi pudichi nascondono una vita di lacrime. Lilly e Felice – Aimée e Jaguar, soprannomi letterari, secondo l’epica dell’amore -, si erano viste per l’ultima volta il 7 settembre 1944. La cronaca: Arrivate a casa senza fiato dopo una lunga pedalata sotto il sole, ci trovano la Gestapo. Non c’è bisogno che lo neghi, afferma in tono tagliente l’uomo con i capelli scuri e l’uniforme delle SS, rivolgendosi a Felice, lei è l’ebrea Schragenheim.
Felice tenta la fuga, corre via, attraversa il giardino e sale dalla signora Beimling, ma non c’è niente da fare. L’interrogatorio riprende. Dopo due ore arrivano altri uomini delle SS che avevano atteso in un camion pochi isolati più avanti. In silenzio Felice sfila l’anello con la pietra verde che porta al dito medio e lo consegna a Lilly, la bacia sulla fronte. Poi la portano via. Secondo documenti conservati a Tel Aviv, muore nel marzo 1945, a soli 23 anni.
Le mille testimonianze, le immagini, le lettere, le poesie, gli appunti raccolti dalla scrittrice Erica Fisher nel volume La breve vita dell’ebrea Felice Schragenheim (editore Beit, euro 32,00) dicono che si poteva essere felici. Che nella Berlino assediata dal Male la vita poteva pulsare ed espandersi e irradiare la sua grazia leggera. Che la paura poteva arrendersi di fronte alla normalità. Che nella tragedia, il cuore di Felice pulsava al suo solito ritmo, e di più. E che il suo sorriso restava invulnerabile: identico a quello che bambina esibiva nelle foto accanto alla sorella Irene. Felice nasce il 9 marzo 1922 all’ospedale ebraico di Berlino.
Nella capitale tedesca vivono allora 173 mila ebrei, il 4,3 per cento della popolazione, il 30 per cento di tutti gli ebrei tedeschi. Il padre Albert è un dentista, la madre Erna Karewski anche. Gli amici della famiglia sono ebrei di orientamento liberale e socialista. La casa è frequentata da avvocati, medici, artisti, come il noto scrittore Lion Feuchtwanger, cugino di secondo grado di Albert Schragenheim.
Fra i loro amici vi è anche un rabbino: gli Schragenheim, pur non essendo religiosi, danno molta importanza alle tradizioni. La vita scorre abbastanza tranquilla: le vacanze nella Foresta Nera, a Binz, sull’isola di Rugen, sugli sci a Johannisbad, nel Reisengebirge. È tutto nelle foto.
Il miracolo della vita di Felice risuona in un apparato documentario incredibile.
Il certificato di nascita, l’iscrizione a scuola, i compagni delle elementari, i visti per l’espatrio, cartoline, lettere, poesie, ritratti, fogli strappati, quaderni, conti, tutto. Anche il primo lutto di Felice è inciso in un’immagine.
L’incidente del 30 maggio 1930: la Fiat dei genitori si ribalta su una strada di campagna. Il papà rimane illeso, la mamma muore. Da lì, il precipizio: le prime epurazioni a partire dal 1933, la morte del padre nel 1935, l’esclusione dalla scuola dopo la Notte dei Cristalli fra il 9 e il 10 novembre 1937. In quello stesso anno Felice scrive: Gli spiriti lungimiranti del nostro tempo/vedono nero, i miopi vedono rosso, i presbiti distinguono tutti i colori./Vi è proprio di tutto, manca però/chi sappia veder chiaro.
L’impegno se lo prende in prima persona: io voglio vederci chiaro, dice Felice. Almeno questo racconta la sua vita. Una chiarezza che diventa strumento operativo. Tutti scappano, compresa l’amica Hilli Fränkel, ma lei no, resta a Berlino. Tra i documenti c’è un visto per l’Australia; forse potrebbe raggiungere lo zio Walter Karewski negli States; la sorella Irene va a Londra. Niente di fatto: Per la Terra promessa / occorre prima prenotare, scrive in versi. La sua vita è già prenotata qui, a Berlino. Da spendere nel clan effervescente e libertino dell’attrice Olga Cechova, tra fughe, nascondimenti e amori omosessuali. Fino all’incontro decisivo dell’ottobre 1942.
L’amica Inge Wolf, con cui Felice condivide la casa, lavora come domestica da Elisabeth Lilly Wust, madre di quattro figli. Un giorno la padrona le confida di poter riconoscere un ebreo dall’odore. Come Inge lo riferisce all’amica, Felice, che amava l’avventura e si annoiava in mancanza di un’occupazione, trova il fatto assai curioso e intende fare la prova di persona.
Alla fine di novembre le tre donne si danno appuntamento al Café Berlin nei pressi del Banhof Zoo. Malgrado sia novembre, Lilly indossa un vestito di seta blu scuro a roselline bianche e azzurre. Accanto a Felice, così elegante nel suo fine tailleur inglese, si sente penosamente banale.
Giunto il momento di congedarsi, Felice offre a Lilly una mela. Lei l’afferra tremante e la stringe forte tra le mani.
Detto così, un normale incontro. D’accordo, fulminante, ma agli esseri umani accade così, no? È la scena a essere folle.
Berlino è nel pieno delle deportazioni; Felice, clandestina, non ha fissa dimora e sopravvive con documenti falsi; nel giro di qualche mese verrà il tempo dell’azione finale contro gli ebrei. Scrive in versi Felice:
Una cosa almeno mi è comunque riuscita: / sognavo sempre di far cose folli / e di questo ora ho la prova: / a essere folle sono io!. E Lilly? Sposata con un militare, quattro figli maschi. Che importanza ha?
Nell’ottobre del 1943 si separa dal marito. Il 22 novembre squillano le sirene, intorno alle 20 inizia un attacco a tappeto. La gente sgombra le macerie, tappa le finestre con il cartone, si mette alla ricerca di amici colpiti dai bombardamenti. La follia della guerra e la follia dell’amore. Attestiamo i seguenti dieci punti, scrive Felice: 1) Ti amo follemente! 2) Ti amo follemente! 3) Ti amo follemente!
. Risponde Lilly: Con la presente certifico espressamente che sei un angelo!
La mistica della guerra, dell’onnipotenza cieca. E dentro la guerra, la mistica di un amore dallo sguardo adolescenziale, salvifico e impossibile. La relazione umana che diventa la pagliuzza del naufrago, strumento di una catarsi che restituisce qualche carezza, baci (documentati dalle foto), ma soprattutto nostalgia e dolore. Un incontro che alimenta il presagio della felicità e si trasforma in lutto infinito.
Il 21 agosto Lilly comincia a tenere un diario. Dopo la guerra ricopia tutte le sue annotazioni e le poesie di Felice in quello che definisce il suo libretto delle lacrime. L’8 settembre 1944 Felice viene deportata. Scrive il suo ultimo messaggio: Mia amatissima gattina, sii sempre buona e coraggiosa e pensami! Il Pervitin me l’ha dato l’infermiera che ti ho presentato recentemente. È molto buona con me
...
Se l’energetica freschezza, se il chiarore di Felice è un fiore nato nello sterco nazista, la memoria di Lilly è l’alimento che l’ha tenuto in vita. Nulla sarebbe rimasto senza la costanza del ricordo amorevole di Aimée-Lilly. Le foto si sarebbero disperse, la storia deflagrata in mille schegge.
Non sarebbero state le molte poesie raccolte a fine libro a resuscitare Jaguar-Felice. Lei che si credeva invulnerabile muore in un campo di concentramento. La vulnerabile Lilly sopravvive a se stessa e al ricordo di quell’amore.
Non è solo Felice la protagonista di questo libro, le protagoniste sono due, Aimée e Jaguar. Una morta a 23 anni, l’altra il 31 marzo 2006, a 97 anni. La rabbia nazista ha condannato entrambe. La seconda, Lilly, a ricordare. Per 74 anni, una vita intera.